Dettaglio Legge Regionale

Modifiche alla legge regionale 12 aprile 1983 n. 18 (Norme per la conservazione, tutela , trasformazione del territorio della Regione Abruzzo), misure urgenti e temporanee di semplificazione e ulteriori disposizioni in materia urbanistica ed edilizia. (13-10-2020)
Abruzzo
Legge n.29 del 13-10-2020
n.160 del 16-10-2020
Politiche infrastrutturali
/ Rinuncia parziale
10-12-2020 / Impugnata
La Legge regionale, che reca “Modifiche alla legge regionale 12 aprile 1983 n. 18 (Norme per la conservazione, tutela, trasformazione del territorio della Regione Abruzzo), misure urgenti e temporanee di semplificazione e ulteriori disposizioni in materia urbanistica ed edilizia.”, è censurabile relativamente alle disposizioni contenute negli articoli 5, 7, 10, 18, 19, 23 e 25, che, per i motivi di seguito specificati, violano disposizioni statali che costituiscono norme interposte e risultano così invasive della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, abbassando altresì il livello della tutela dei predetti interessi determinando la violazione dell’art. 9 della Costituzione. Le disposizioni regionali censurate inoltre contrastano con norme di principio in materia di governo del territorio e quindi violano l’articolo 117, terzo comma della Costituzione.

In particolare :
1) La disposizione contenuta nell’articolo 5, comma 3, modifica l’articolo 20 della legge regionale n. 18 del 1983, riformulando l’attuale comma 8-bis, con riferimento ai piani attuativi conformi allo strumento urbanistico generale vigente (ossia con modifiche entro i limiti del comma 8 e che non alterino i carichi urbanistici) stabilendo che : “I Piani attuativi conformi allo strumento urbanistico generale vigente sono approvati dalla Giunta comunale, ai sensi dell’articolo 5, comma 13, lettera b), del d.l. 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106”.
La disposizione regionale è censurabile considerato che la norma nazionale richiamata – ossia l’articolo 4, comma 13, lett. b), del d.l. n. 70 del 2011 – si limita a stabilire che “Nelle Regioni a statuto ordinario, (…) decorso il termine di sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e sino all’entrata in vigore della normativa regionale, si applicano, altresì, le seguenti disposizioni: (…) b) i piani attuativi, come denominati dalla legislazione regionale, conformi allo strumento urbanistico generale vigente, sono approvati dalla giunta comunale”.
La predetta previsione statale – peraltro destinata a operare solo in attesa di una disciplina regionale – è volta quindi unicamente ad attribuire alla Giunta comunale la competenza in ordine ai piani attuativi conformi al piano urbanistico generale, senza che sia dettata alcuna previsione in ordine all’iter di formazione dei medesimi piani attuativi. Tale iter rimane soggetto pertanto ai principi fondamentali vigenti, i quali richiedono la distinzione tra la fase di adozione e quella di approvazione, allo scopo di consentire la fase indefettibile di partecipazione degli interessati.
Non sembra infatti potersi dubitare del fatto che il termine “approvazione” sia utilizzato nella disposizione statale richiamata per riferirsi genericamente al procedimento che si dipana dalla fase di iniziativa fino alla deliberazione finale dello strumento attuativo. In altri termini, il legislatore nazionale ha inteso soltanto escludere che l’approvazione dei piani attuativi conformi a quelli generali possa essere demandata dalla legge regionale al Consiglio comunale o a un Ente sovraordinato rispetto al Comune, ma non ha inciso sulla disciplina del procedimento di pianificazione.
La modifica apportata alla precedente formulazione della legge regionale determina l’eliminazione del riferimento espresso alle fasi di adozione e di controdeduzione alle osservazioni relative allo strumento attuativo adottato. La novella appare stabilire che i piani attuativi conformi allo strumento generale non siano soggetti alle distinte fasi di adozione e approvazione, ma vengano deliberati una sola volta dalla Giunta regionale, con totale elisione delle fasi di pubblicazione del piano adottato, di presentazione delle osservazioni da parte degli interessati e di controdeduzione alle medesime osservazioni. Viene così soppressa anche la possibilità di partecipazione al procedimento da parte delle Amministrazioni che hanno il compito di curare interessi pubblici diversi da quelli rimessi alla tutela dei Comuni. La norma regionale non lascia spazio, per la preventiva sottoposizione del piano alla Soprintendenza, imposta dall’art. 16, terzo comma, della legge n. 1150 del 1942.
Non può sostenersi che la norma statale di cui all’art. 5, comma 13, lett. b), del decreto-legge n. 70 del 2011, nell’attribuire la competenza della “approvazione” dei piani attuativi conformi alla Giunta , contenga anche una semplificazione procedimentale, volta a snellire l’iter di formazione di tali piani, nel senso di sopprimere le fasi di pubblicazione del piano, di presentazione delle osservazioni da parte degli interessati e di controdeduzione alle osservazioni medesime, fasi che resterebbero quindi necessarie (solo) nel caso di piani attuativi non conformi allo strumento urbanistico generale. In proposito il Giudice amministrativo, con la sentenza del Consiglio di Stato n. 888 del 2016, ha precisato che l’organo competente alla “approvazione” dei piani ha anche, in virtù dei principi generali, il potere di diniego di approvazione. Il Giudice amministrativo ha evidenziato che “La Giunta può approvare il piano attuativo quando questo è coerente con il P.R.G. (o strumento equipollente); l’esigenza di modifica di quest’ultimo, implicata dal piano attuativo, attiva la competenza del Consiglio” e che “la neutralità del piano attuativo rispetto allo strumento generale è condizione necessaria e sufficiente a radicare la competenza della Giunta”.
La richiamata norma del c.d. decreto sviluppo non introduce dunque semplificazioni procedimentali ma individua soltanto l’organo competente alla “approvazione” di determinati piani: la citata pronuncia del Consiglio di Stato chiarisce infatti che “la normativa del 2011 ha disposto un trasferimento di competenza e non ha qualitativamente mutato la natura dell’atto conclusivo del procedimento” e che “nelle disposizioni ricordate ‘approvazione’ va intesa non in senso positivo, ma nel significato neutro di ‘deliberazione’”. Ciò in considerazione della competenza generale stabilita dal TUEL, atteso che “A norma dell’art. 42, comma 2, lett. b), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, il Consiglio mantiene sempre la competenza generale in tema di piani territoriali e urbanistici, competenza che si riespande non appena vengano meno le ragioni specifiche (e cioè la conformità della proposta al P.R.G.) che, per successiva norma di legge, ne abbiano comportato il trasferimento in capo alla Giunta” (cfr. ancora la sentenza citata).
In altri termini, il legislatore statale ha affidato l’intero iter dello strumento attuativo – se conforme al piano urbanistico generale – alla Giunta comunale, ma tale iter rimane immutato e soggetto ai principi fondamentali in materia, i quali richiedono la distinzione tra la fase di adozione e quella di approvazione, allo scopo di consentire la fase indefettibile di partecipazione degli interessati. La partecipazione degli interessati e delle altre Amministrazioni è infatti sempre necessaria, in base ai principi, anche ove il piano attuativo sia conforme a quello sovraordinato, atteso che le previsioni del piano urbanistico generale possono essere declinate concretamente in molteplici modi, che presentano un diverso impatto sul territorio, sulla morfologia dei luoghi e quindi sul paesaggio.
La disposizione regionale in esame, eliminando il riferimento espresso alle fasi di adozione e di controdeduzione alle osservazioni relative allo strumento attuativo adottato, con totale elisione delle fasi di pubblicazione del piano adottato, di presentazione delle osservazioni da parte degli interessati e di controdeduzione alle medesime osservazioni, risulta sopprimere la possibilità di partecipazione al procedimento sia dei cittadini interessati che da parte delle Amministrazioni che hanno il compito di curare interessi pubblici diversi da quelli rimessi alla tutela dei Comuni, in violazione della disciplina statale, che viene anzi presa a pretesto per introdurre la modifica normativa. La norma regionale non lascia spazio, inoltre, per la preventiva sottoposizione del piano alla Soprintendenza, imposta dall’art. 16, terzo comma, della legge n. 1150 del 1942.
Sulla base di quanto sopra dedotto , l’articolo 20, comma 8-bis, della legge regionale n. 18 del 1983, come novellato dall’articolo 5, comma 3 della legge regionale in esame, si pone in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale concernenti l’iter di formazione dei piani – principi vincolanti in materia di governo del territorio, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione – nonché con il predetto art. 16 della legge n. 1150 del 1942, dettato dallo Stato nell’esercizio della potestà esclusiva in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.

2) La disposizione contenuta nell’articolo 7 modifica l’art. 23 della legge regionale n. 18 del 1983, sostituendo il comma 3 con il seguente: “Il procedimento di formazione dei Piani di lottizzazione di iniziativa privata è quello di cui agli articoli 20 e 21. Decorsi 30 giorni dalla presentazione degli atti senza che il Comune abbia assunto provvedimenti deliberativi ovvero avanzato richieste di integrazione istruttoria e/o documentale, i richiedenti possono inoltrare al Comune un atto di diffida, trasmettendone copia alla Regione, la quale, decorso l’ulteriore periodo di 30 giorni senza che il Comune abbia deliberato, provvede in via sostitutiva nei 30 giorni successivi a mezzo di apposito Commissario ad acta, all’uopo designato.”. La disposizione regionale dunque, stabilisce una significativa compressione dei termini di adozione dei piani di lottizzazione privata, posto che i 120 giorno originariamente previsti passano a 20 giorni e che i 60 giorni previsti per la delibera in via sostitutiva sono portati a 30, in disallineamento peraltro con i termini previsti dagli articoli 20 e 21 della legge regionale. Tale compressione dei termini, contrasta con l’esigenza di attenta valutazione connessa alla pianificazione di intere porzioni di territorio; esigenza ben presente al legislatore statale, il quale – all’articolo 28, secondo comma, della legge n. 1150 del 1942 – ha, tra l’altro, sottoposto i piani di lottizzazione al previo parere della Soprintendenza, indipendentemente dalla circostanza che siano o meno interessate porzioni di territorio sottoposte a tutela, non distinguendo in alcun modo se lo strumento sia conforme o meno alla pianificazione vigente. Anche nei casi in cui siano introdotte riduzioni dei termini procedimentali, pertanto, deve essere assicurato lo svolgimento delle funzioni di tutela dei beni culturali e del paesaggio attribuite allo Stato, nei termini previsti dalla normativa statale, che stabilisce un termine inderogabile di novanta giorni per rendere le determinazioni di competenza , ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 2, lettera c), e art. 17-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990. La previsione regionale, nello stabilire che il Comune debba deliberare i piani di lottizzazione entro il termine irragionevole di soli trenta giorni, si pone, pertanto, in contrasto con l’art. 28, secondo comma, della legge n. 1150 del 1942 e con gli artt. 14-bis, comma 2, lett. c), e 17-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in quanto preclude la sottoposizione del piano di lottizzazione alla Soprintendenza.
Risulta pertanto, violato l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, atteso che la previsione della legge urbanistica che impone la sottoposizione del piano alla Soprintendenza costituisce un principio fondamentale in materia governo del territorio, attenendo al nucleo fondamentale delle regole tipizzate dal legislatore nazionale per la formazione del predetto piano.
Sotto altro profilo, la violazione dell’art. 28, secondo comma, della legge n. 1150 del 1942 e dell’art. 14-bis, comma 2, della legge n. 241 del 1990 comporta anche l’invasione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, nonché l’abbassamento del livello della tutela dei predetti interessi, che determina la violazione dell’art. 9 della Costituzione. Da ultimo, la previsione di un termine di soli trenta giorni per l’esame e la deliberazione di uno strumento di pianificazione a iniziativa privata risulta manifestamente arbitraria e irragionevole, comportando anche un serio pregiudizio al buon andamento dell’amministrazione. Da ciò la violazione pure degli articoli 3 e 97 della Costituzione.

3) La disposizione contenuta nell’articolo 10, sostituisce l’art. 33 della legge regionale n. 18 del 1983, concernente la variazione degli strumenti urbanistici. In particolare, il comma 2 elenca i casi che non costituiscono “varianti urbanistiche”; ipotesi in cui le modificazioni, ai sensi del successivo comma 3, sono assunte dal Comune mediante deliberazione consiliare, che viene trasmessa alla Provincia ai fini di quanto previsto dal comma 4 (eventuale ricorso al Presidente della Giunta regionale). Le ipotesi previste, non essendo qualificate come “varianti”, vengono quindi sottoposte a un iter procedurale più snello che viene illegittimamente sottratto, per ciò solo, alla fase di verifica della conformità della delibera consiliare di cui al comma 3 con il piano paesaggistico, ai sensi dell’art. 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Non può ritenersi infatti che la mera qualificazione di determinate categorie di interventi come “non varianti” possa sottrarre questi stessi all’obbligo di conformità con il piano paesaggistico, le cui previsioni sono invece poste dal legislatore statale come cogenti e inderogabili da parte degli altri strumenti di pianificazione territoriale, ad esso necessariamente subordinati. Appare quindi evidente che il legislatore regionale non può autonomamente individuare intere categorie di interventi che, anche se ricadenti in ambiti paesaggisticamente vincolati, sono sottratti all’obbligo di verifica della conformità rispetto alla disciplina d’uso definita nel piano paesaggistico. La norma regionale, quindi, nel prevedere che determinate modificazioni ai piani, non qualificate come varianti in forza di una mera scelta della Regione, sono assunte con delibere consiliari, senza prevedere per queste ultime la necessaria fase di verifica della conformità con il piano paesaggistico, ai sensi dell’articolo 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, si pone in contrasto con lo stesso articolo 145 del codice dei beni culturali e del paesaggio, costituente norma interposta rispetto all’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione. È, inoltre, violato l’art. 9 della Costituzione, in considerazione dell’effetto, derivante dalla disposizione censurata, di determinare l’abbassamento del livello della tutela del paesaggio, costituente interesse primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007).

4) La disposizione contenuta nell’articolo 18 , recante “disposizioni per il patrimonio edilizio pubblico”, estende l’applicazione della legge regionale n. 49 del 2012 anche agli immobili pubblici (comma 1) e prevede che per gli immobili pubblici oggetto di alienazione sia “sempre” consentito il passaggio tra diverse destinazioni d’uso (comma 2).
Ai sensi del Testo unico dell’edilizia, DPR n. 380 del 2001, i mutamenti di destinazione d’uso si distinguono in quelli “urbanisticamente rilevanti”, ai sensi dell’articolo 23 , per i quali è necessario il permesso di costruire secondo l’ordinaria procedura (senza possibilità di deroga agli strumenti urbanistici, come invece previsto dall’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001, richiamato dall’art. 5, del d.l. n. 70/2011), e i mutamenti fra “destinazioni fra loro compatibili o complementari”, nei casi di cui all’art. 5, commi 9 e 13, decreto legge n. 70/2011, per i quali è ammissibile il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici. Da dette norme si desumonoi principi fondamentali secondo cui i mutamenti di destinazione d’uso di regola sono soggetti a permesso di costruire, e che il titolo non può essere rilasciato in deroga agli strumenti urbanistici allorché il mutamento sia urbanisticamente rilevante ai sensi dell’art. 23-ter del T.U..
La norma regionale in esame, invece, non richiama, imponendone il rispetto, l’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001 legittimando per gli immobili pubblici oggetto di alienazione, sempre e comunque e anche a prescindere dalle previsioni degli strumenti urbanistici, ogni tipo di mutamento di destinazione d’uso.
Ciò in quanto, richiamando solo l’art. 5, comma 3, della l.r. n. 49/2012 (e, quindi, indirettamente le disposizioni dell’art. 5, decreto legge n. 70/2011), richiama solo un’ipotesi derogatoria contemplata dalla legislazione statale e non la disciplina a regime.
Posto che una simile operazione è assimilabile alla classificazione delle categorie di interventi edilizi o urbanistici, valgono in tal caso le indicazioni espresse dalla Corte Costituzionale con riguardo alla disciplina del governo del territorio, secondo cui «sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (così la sentenza n. 309 del 2011), sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013)» (sentenza n. 259 del 2014). Lo spazio di intervento che residua al legislatore regionale è quello di «esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali», a condizione, però, che tale esemplificazione sia «coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell'edilizia» (sentenza n. 49 del 2016).
Pertanto, la norma di cui all’articolo 18 della legge regionale in esame risulta violare l’art. 117, terzo comma della Costituzione con riguardo alla materia governo del territorio, nella parte in cui non richiama anche, imponendone il rispetto, l’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001.
Con riferimento ai contesti paesaggistici meritevoli di tutela, si rileva che la disciplina dettata in via generale e astratta dalla Regione in ordine alla “riqualificazione” degli immobili pubblici si sostituisce sostanzialmente alla disciplina d’uso dei beni paesaggistici che dovrebbe essere dettata nell’ambito del piano paesaggistico, da approvare previa intesa con lo Stato, ai sensi degli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Soltanto a quest’ultimo strumento, elaborato d’intesa tra Stato e Regione, spetta infatti di stabilire, per ciascuna area tutelata, le c.d. prescrizioni d’uso (e cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e di individuare la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni.
Le disposizioni regionali contrastano quindi con la scelta del legislatore statale di rimettere alla pianificazione la disciplina d’uso dei beni paesaggistici (c.d. vestizione dei vincoli) ai fini dell’autorizzazione degli interventi, come esplicitata negli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturale e del paesaggio.
Al riguardo, occorre tenere presente che la parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio delinea un sistema organico di tutela paesaggistica, inserendo i tradizionali strumenti del provvedimento impositivo del vincolo e dell’autorizzazione paesaggistica nel quadro della pianificazione paesaggistica del territorio, che deve essere elaborata concordemente da Stato e Regione. Tale pianificazione concordata prevede, per ciascuna area tutelata, le c.d. prescrizioni d’uso (e cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e stabilisce la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni.
Il legislatore nazionale, nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia, ha assegnato dunque al Piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale. Gli artt. 143, comma 9, e 145, comma 3, del Codice di settore sanciscono infatti l’inderogabilità delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché l’immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte cost. n. 180 del 2008).
Si tratta di una scelta di principio la cui validità e importanza è già stata affermata più volte dalla Corte costituzionale, in occasione dell’impugnazione di leggi regionali che intendevano mantenere uno spazio decisionale autonomo agli strumenti di pianificazione dei Comuni e delle Regioni, eludendo la necessaria condivisione delle scelte attraverso uno strumento di pianificazione sovracomunale, definito d’intesa tra lo Stato e la Regione. La Corte ha, infatti, affermato l’esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (Corte cost. n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica “è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale” (Corte cost., n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009).
Questo profilo di illegittimità non viene meno per il fatto che la disciplina regionale non esclude la necessità di munirsi, per gli interventi relativi a beni tutelati, anche dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto la normativa regionale comunque consente, a monte e in astratto, possibili ampie trasformazioni degli immobili e quindi del contesto tutelato, a scapito della sua “conservazione” e “integrità”, in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici.
Viene pertanto compromessa la possibilità di una valutazione complessiva della trasformazione del contesto tutelato, quale dovrebbe avvenire nell’ambito del piano paesaggistico, adottato previa intesa con lo Stato, rimettendo alla Soprintendenza una valutazione caso per caso degli interventi.
Non compete invece alla Regione dettare unilateralmente, senza il necessario coinvolgimento del Ministero per i beni e le attività culturali , una disciplina generale per la riqualificazione degli immobili pubblici destinata a trovare applicazione anche in presenza di vincoli paesaggistici, essendo a questo scopo necessaria la definizione di un quadro di disciplina nell’ambito del piano paesaggistico elaborato d’intesa con lo Stato (cfr. Corte cost. n. 240 del 2020).
La censurata disposizione si pone quindi in contrasto con la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché, comportando un abbassamento dei livelli di tutela, con l’art. 9 della Costituzione, ai sensi del quale il paesaggio costituisce valore primario e assoluto.

5) La disposizione contenuta nell’articolo 19, modificando la legge regionale n. 49 del 2012, introduce la possibilità generalizzata per i comuni, resa permanente con la novella, di ricorrere alle misure incentivanti su tutto il territorio comunale, senza che tali facoltà siano ricondotte nell’alveo del piano paesaggistico regionale. La disciplina introdotta dalla norma regionale in esame, operante senza limiti di tempo in relazione all’intero territorio regionale, laddove consente interventi di ristrutturazione, ampliamento e di demolizione e/o ricostruzione con aumenti di volumetria anche sugli immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, comporta il sostanziale svuotamento della funzione propria del piano paesaggistico.
La novella introdotta dalla legge regionale avrebbe invece dovuto prevedere la propria applicazione, in relazione ai beni paesaggistici, esclusivamente nei casi e con le modalità previamente determinati dal piano paesaggistico in corso di elaborazione congiunta con il Ministero per i beni e le attività culturali o eventualmente fissati d’intesa con quest’ultimo e destinati a confluire nel futuro piano. Ciò allo scopo di evitare che, in sede di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche, le singole trasformazioni vengano valutate in modo parcellizzato, e non nell’ambito della considerazione complessiva del contesto tutelato specificamente demandata al piano paesaggistico, secondo la scelta operata al riguardo dal legislatore nazionale. Conseguentemente, la novella introdotta dalla disposizione regionale in esame, volta a stabilizzare le facoltà comunali di ricorrere alle misure incentivanti è costituzionalmente illegittima laddove non prevede una specifica clausola in favore del piano paesaggistico e non subordina l’applicazione della medesima normativa alla previa introduzione di un’apposita disciplina d’uso dei beni paesaggistici tutelati, elaborata d’intesa con il Ministero di settore.
Per le medesime ragioni già esposte al punto precedente, anche questa disposizione si pone quindi in contrasto con la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché, comportando un abbassamento dei livelli di tutela, con l’art. 9 della Costituzione, ai sensi del quale il paesaggio costituisce valore primario e assoluto.

6) La disposizione contenuta nell’articolo 23, attribuisce ai Comuni dei crateri sismici del 2009 e del 2016 il potere di approvare varianti agli strumenti urbanistici allo anche in deroga al limite di dimensionamento dei piani, al fine di ricomprendere in aree edificabili i lotti interessati da strutture e manufatti temporanei realizzati a seguito degli eventi sismici a condizione che gli stessi siano conformi ai titoli autorizzativi e/o comunicazioni, previsti dalla normativa emergenziale emanata a seguito degli eventi sismici. Viene così vanificato il ruolo stesso della pianificazione paesaggistica, consentendo la trasformazione indiscriminata e in deroga alle norme urbanistiche sul dimensionamento dei piani di intere porzioni di territorio sottoposto a tutela. Tale disposizione si pone in contrasto con l’articolo 9 della Costituzione nonché l’invasione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di paesaggio, di cui all’articolo 117, comma 2 lettera s) della Costituzione rispetto al quale costituiscono norme interposte gli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio
Inoltre, il decreto legge n 189 del 2016, convertito con modificazioni dalla legge 15 dicembre 2016, n. 229, consente, in via del tutto eccezionale la collocazione di “strutture temporanee amovibili” su terreni aventi qualsiasi destinazione, allo scopo di sopperire alle esigenze abitative delle popolazioni danneggiate. È tuttavia prescritta inderogabilmente la rimozione delle strutture e il ripristino dello stato dei luoghi alla cessazione dell’emergenza, ossia una volta ottenuta l’agibilità dell’immobile distrutto o danneggiato. La previsione regionale si pone in contrasto con la suddetta previsione statale in quanto mira alla stabilizzazione delle strutture che, in base alla norma eccezionale statale, dovrebbero avere carattere del tutto provvisorio. Sotto altro profilo, la disposizione censurata, laddove consente di derogare ai limiti di dimensionamento, si pone anche in aperta violazione del principio fondamentale secondo il quale le norme di piano che prevedono la trasformazione del territorio per la realizzazione di nuovi insediamenti, devono essere basate su puntuali calcoli di fabbisogno abitativo. Tale principio, che trova positiva emersione all’articolo 3 della legge 18 aprile 1962, n. 127, è in realtà sotteso all’intera disciplina normativa in materia di governo del territorio e presenta una portata di carattere generale, imponendo in via generale alle Regioni di ancorare il dimensionamento delle nuove edificazioni previste dai piani urbanistici al reale fabbisogno abitativo da soddisfare. Inoltre, la deroga ai principi introdotta dalla norma regionale, non trova alcuna giustificazione in ragioni di interesse pubblico. Infatti, l’articolo 4-quater del decreto legge n. 189 del 2016 consente il mantenimento delle strutture temporanee amovibili realizzate per l’emergenza sismica fino all’agibilità dell’immobile distrutto o danneggiato, assicurando quindi pena tutela alle necessità di alloggio delle popolazioni danneggiate. La disposizione regionale, consentendo ai Comuni di rendere edificabili le aree su cui sorgono le predette strutture precarie e amovibili, permette invece di sostituire tali manufatti con edifici strutturalmente stabili e destinati a permanere sul territorio, determinandone così la trasformazione irreversibile, nonostante il venir meno della situazione di emergenza alloggiativa, ponendosi quindi in contrasto con l’articolo 117, comma 3 della Costituzione, in considerazione della violazione del principio fondamentale in materia di governo del territorio di obbligatorio dimensionamento dei piani in funzione delle esigenze insediative, nonché del principio fondamentale posto dall’articolo 4-ter del decreto legge n. 189 del 2016.

7) La disposizione contenuta nell’articolo 25, prevede l'installazione su aree private di manufatti leggeri, e consente una deroga temporanea per un periodo non superiore a due anni, alla disciplina prevista dal Testo unico sull’edilizia. Tale previsione viola l’articolo 117, comma 3 della Costituzione in materia di “governo del territorio”, in quanto gli interventi in essa individuati, seppure omogenei rispetto a quelli che possono essere eseguiti senza titolo abilitativo ai sensi dell’articolo 6, comma 1 lettera e-bis), del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, si discostano dalla ratio sottesa alla normativa statale che includerebbe tra le attività “libere” soltanto quelle a carattere temporaneo. E il carattere cogente della temporaneità al fine dell’individuazione delle opere in esame, è evidenziato dalla duplice circostanza che la norma ne prevede la necessaria rimozione alla cessazione dell’esigenza e, comunque, “entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto”. L’articolo 6, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, prevede che le regioni a statuto ordinario possono estendere la disciplina dell’edilizia libera a “interventi edilizi ulteriori” (lettera a), nonché disciplinare “le modalità di effettuazione dei controlli” (lettera b). Nel definire i limiti del potere così assegnato alle regioni, la Corte Costituzionale ha escluso “che la disposizione appena citata permetta al legislatore regionale di sovvertire le “definizioni“ di “nuova costruzione“ recate dall’articolo 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 (Sentenza n. 171 del 2012). L’attività demandata alla regione, si inserisce pur sempre nell’ambito derogatorio definito dall’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, attraverso l’enucleazione di interventi tipici da sottrarre a permesso di costruire e segnalazione certificata di inizio di attività. Non è perciò pensabile che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei principi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del territorio siano così significative, da soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’articolo 6, comma 6, lettera a) del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo (Corte Costituzionale sentenza n. 139 del 2013). Il limite assegnato al legislatore regionale dall’articolo 6, comma 6, lettera a) del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella possibilità di estendere i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui al comma 1, articolo 6 (Corte Costituzionale Sentenza n. 282 del 2016).

Per questi motivi la legge regionale in esame, limitatamente alle disposizioni sopra indicate , deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.

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