Dettaglio Legge Regionale

Disposizioni di carattere istituzionale-finanziario e in materia di sviluppo economico e sociale. (22-11-2021)
Sardegna
Legge n.17 del 22-11-2021
n.64 del 23-11-2021
Politiche economiche e finanziarie
21-1-2022 / Impugnata
La legge regionale Sardegna n. 17 del 22/11/2021, recante “Disposizioni di carattere istituzionale-finanziario e in materia di sviluppo economico e sociale” è illegittima con riferimento a diverse disposizioni che violano principi della Carta costituzionale e va impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione secondo le motivazioni che di seguito si riportano.

L’articolo 5 comma 3 dispone che al personale transitato ai sensi articolo 1, comma 4 della legge regionale 3 agosto 2017, n. 18, si applica il riconoscimento di anzianità previsto dall'articolo 87, comma terzo, della legge regionale 17 agosto 1978, n. 51. Inoltre, l’anzianità così maturata nella qualifica per l’accesso alla quale dall'esterno sia prescritto il diploma di laurea vale quale requisito di ammissione alle procedure di accesso alla dirigenza di cui all'articolo 32 della legge regionale n. 31 del 1998.
La norma, in estrema sintesi, sostituisce il requisito del titolo di studio della laurea, previsto per l’accesso alla dirigenza, con quello della mera anzianità di servizio, ponendosi pertanto in insanabile contrasto con la disciplina ordinamentale (cogente anche per gli enti locali) in materia di accesso alla dirigenza.
A nulla rileva la circostanza che l’articolo in parola riconosce l’anzianità, così maturata nella qualifica per l’accesso alla quale dall’esterno sia prescritto il diploma di laurea, quale requisito utile ai fini dell’ammissione alle procedure di accesso alla dirigenza di cui all’art. 32 della l.r. n. 31/1998 che individua i requisiti occorrenti a tali fini.
Al riguardo, occorre rappresentare che il legislatore nazionale, in forza del combinato disposto degli articolo 19 e 28 del decreto legislativo n. 165/2001, ha disciplinato, tra l’altro, i requisiti culturali minimi per l’accesso alla qualifica di dirigente, evidenziando che la formazione universitaria richiesta non può essere inferiore al possesso della laurea specialistica o magistrale ovvero del diploma di laurea conseguito secondo l'ordinamento didattico previgente al regolamento di cui al decreto del Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509. Sull’argomento, è intervenuto anche il Dipartimento della Funzione Pubblica che, con il parere n. 35/2008, ha precisato che per gli enti locali il requisito del titolo di studio richiesto dalla legge per il conferimento di un incarico dirigenziale è lo stesso, disposto in generale, dall’articolo 28, comma 1, del d.lgs n. 165/2001, ovvero il diploma di laurea. In proposito, va precisato che l’articolo 40, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) ha modificato l’articolo 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, aggiungendo il comma 6-ter, il quale dispone che i commi 6 e 6-bis si applicano alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo decreto. Quest’ultima norma, a sua volta, stabilisce che per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato e, per quanto qui interessa, anche le Regioni.
A fortiori, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 324/20210, ha ritenuto che la disciplina di cui agli artt. 6 e 6-bis dell’articolo 19 del d. lgs. n. 165/2001 riguardi tutte le amministrazioni pubbliche, anche quelle locali; trattandosi, infatti, di requisiti soggettivi che devono essere posseduti dal privato contraente non possono che essere identici per tutte le fattispecie in cui si dà luogo a un incarico dirigenziale.
La disciplina degli incarichi dirigenziali, per quanto attiene ai profili normativi del rapporto, è materia attratta all'ordinamento civile e, in quanto tale, rimessa alla potestà esclusiva dello Stato dall'art. 117 Cost., secondo comma, lett. l), (sentenze Corte Cost. n. 324 del 2010, n. 62 del 2019). Come affermato dalla Corte costituzionale (sentenze n. 77 del 2013, n. 151 del 2010, n. 95 del 2007), “la disciplina del rapporto lavorativo dell’impiego pubblico privatizzato è rimessa alla competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost., in quanto riconducibile alla materia «ordinamento civile», che vincola anche gli enti ad autonomia differenziata”.
Tanto premesso, si ritiene di dover impugnare la norma regionale per violazione dei principi di cui agli articoli 117, secondo comma, lettera l) e 97 della Costituzione, individuando requisiti di accesso alla dirigenza non conformi al quadro regolativo nazionale, aspetto questo non riconducibile a profili di autonomia organizzativa.
La disposizione viola anche l’articolo 3 dello Statuto speciale per la Sardegna (Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3) che seppure, alla lettera a), stabilisca una competenza esclusiva della Regione in materia di “ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e stato giuridico ed economico del personale” circoscrive tale competenza entro i confini della Costituzione e dei principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica e nel rispetto degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica.

L’articolo 5, comma 19, dispone che nel comparto della contrattazione collettiva regionale si applichi la disposizione di cui all’articolo 3, comma 2 del decreto legge n. 80/2021, che ha introdotto la possibilità di superare i limiti di spesa relativi al trattamento economico accessorio, di cui all’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, compatibilmente con il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, secondo criteri e modalità da definire nell’ambito dei contratti collettivi nazionali di lavoro e nei limiti delle risorse finanziarie destinate a tale finalità.
A tale norma, di carattere programmatorio, è stata data attuazione con l’articolo 1, comma 604 della legge n. 234/2021, il quale prevede che “Al fine di dare attuazione a quanto previsto dall'articolo 3, comma 2, del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, …, le risorse destinate ai trattamenti accessori del personale dipendente dalle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, possono essere incrementate, rispetto a quelle destinate a tali finalità nel 2021, con modalità e criteri stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale relativa al triennio 2019-2021 o dai provvedimenti di determinazione o autorizzazione dei medesimi trattamenti, di una misura percentuale del monte salari 2018 da determinare, per le amministrazioni statali, nei limiti di una spesa complessiva di 110,6 milioni di euro a decorrere dall'anno 2022, … e, per le restanti amministrazioni, a valere sui propri bilanci, con la medesima percentuale e i medesimi criteri previsti per il personale delle amministrazioni dello Stato, secondo gli indirizzi impartiti dai rispettivi comitati di settore ai sensi dell'articolo 47, comma 2, del predetto decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”. Peraltro per le amministrazioni diverse da quelle centrali la percentuale massima da applicare al monte salari del 2018 è sempre rimasta pari allo 0,22% come indicato anche nella Relazione Tecnica della citata Legge di bilancio 2022-2024 in quanto la modifica intervenuta nel comma 604 dell’articolo 1 della legge 234/2021, rispetto alla precedente formulazione contenuta nell’articolo 182 del DDL di Bilancio 2022 ha interessato esclusivamente le amministrazioni centrali.
Nulla rileva la circostanza che la legge della Regione Sardegna n. 17/20211 sia stata emanata prima dell’entrata in vigore della Legge di Bilancio per il 2022, considerato il carattere programmatorio dell’articolo 3, comma 2, del decreto legge n. 80/2021, confermato più volte in tutti i tavoli istituzionali, a cui è stata data attuazione e copertura finanziaria proprio con la predetta Legge 234/2021.
Si aggiunga anche l’effetto emulativo che ne deriverebbe e gli effetti finanziari di cui, al momento, non è possibile neanche valutare la quantificazione.
Pertanto, in assenza, alla data di entrata in vigore della legge regionale, del parametro previsto dall’art. 3, comma 2, del D.L. n. 80/2021, definito infatti solo successivamente dalla legge di bilancio 2022 (ossia il rispetto dei “limiti delle risorse finanziarie destinate a tale finalità), la norma regionale avrebbe dovuto rispettare il limite di spesa posto originariamente dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 e, conseguentemente, essa si pone in contrasto con il principio di coordinamento della finanza pubblica sancito dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione, nonché con l’art. 119 (recante autonomia finanziaria degli enti territoriali) della Costituzione.

L’articolo 5, comma 25, al fine di rafforzare l’organico regionale, con particolare riguardo alle necessità di personale conseguenti all’emergenza Covid-19, dispone che il personale con contratto a tempo indeterminato che abbia prestato servizio presso il sistema Regione in posizione di comando o in assegnazione temporanea, anche attraverso i progetti di cui alla Delib. G.R. 18 gennaio 2005, n. 1/11, negli ultimi cinque anni può transitare, a seguito di apposita domanda, nell'Amministrazione regionale mediante cessione di contratto, previo nulla osta dell'amministrazione di provenienza. Inoltre, viene previsto che la disposizione non comporta oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale e che tali misure trovano applicazione nei limiti delle risorse finanziarie disponibili nel fondo per il reclutamento del personale in conto della missione 01 - programma 10 - titolo 1 del bilancio regionale e nel rispetto delle facoltà assunzionali previste a legislazione vigente.
Il riferimento all’istituto della cessione del contratto come strumento di mobilità viola i principi in materia di accesso agli impieghi pubblici posto che, sul punto, occorre tener conto della speciale disciplina dettata dal d.lgs. n. 165/2001. Da tale disciplina sembrerebbe invero discostarsi l’art. 38-bis della l.r. n. 31/1998, cui la norma regionale in questione fa rinvio, in quanto pur essendo rubricato “passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse”, non solo richiede il previo nulla osta dell’amministrazione di appartenenza, non più previsto in via generalizzata per effetto delle modifiche introdotte dall’articolo 3, del decreto legge n. 80/2021, ma dispone altresì, nel caso di attribuzione del livello economico di valore pari o immediatamente inferiore a quello posseduto nell’amministrazione di appartenenza “un assegno personale riassorbibile atto a garantire l’importo del trattamento economico fisso e continuativo annuo in godimento”. Tale disposizione si pone in contrasto con l’art. 30, comma 2-quinquies, del testo unico del pubblico impiego, in forza del quale “Salvo diversa previsione, a seguito dell'iscrizione nel ruolo dell'amministrazione di destinazione, al dipendente trasferito per mobilità si applica esclusivamente il trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi vigenti nel comparto della stessa amministrazione”. Su questo presupposto giuridico il recente parere DFP n. 27149 del 21.04.2021 ha precisato che, in caso di mobilità volontaria, non è garantito il mantenimento del livello retributivo in godimento presso l’amministrazione di provenienza, dovendosi fare riferimento agli emolumenti propri del trattamento economico fondamentale ed accessorio del comparto di contrattazione dell’amministrazione di destinazione del dipendente previsti per la categoria e fascia economica di inquadramento, restando esclusa la possibilità del riconoscimento, ancorché a titolo di assegno ad personam riassorbibile, di importi derivanti da emolumenti propri del comparto di provenienza; tale possibilità resta invece contemplabile nei casi di mobilità diversi da quella volontaria (cfr. art. 3, comma 2, del d.P.C.m. 26 giugno 2015).
Alla luce di quanto detto, il citato art. 38-bis della l.r. n. 31/1998 appare fattispecie ibrida, che il legislatore regionale avrebbe previsto ad hoc nell’ambito del proprio ordinamento, in contrasto con le citate disposizioni in materia di mobilità che afferiscono alla disciplina del rapporto di lavoro pubblico (privatizzato). Ne discende, a cascata, anche l’illegittimità dell’articolo 5, comma 25 in questa sede oggetto d’esame. La Corte Costituzionale ha infatti più volte ricondotto alla materia dell’«ordinamento civile» le diverse forme e procedure di mobilità nel lavoro pubblico (sentenze n. 68 del 2011; n. 324 del 2010; n. 17/2014).
Si palesa quindi una violazione della sfera di competenza legislativa che l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. riserva esclusivamente allo Stato. Non osta a tale conclusione la circostanza che, ai sensi dell’art. 3, lettera a), dello Statuto della Regione Sardegna, spetti a quest’ultima la competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento degli uffici e di stato giuridico ed economico del proprio personale. Tale potestà di regolazione in materia incontra, infatti, ai sensi di quanto previsto dallo stesso Statuto regionale sardo, i limiti derivanti dalle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica (così, Corte Cost. sentenza n. 172 del 2018). In proposito la Consulta (cfr. sentenza n. 189 del 2007) ha ritenuto confermata l’autoqualificazione contenuta nell’art. 1, comma 3, t.u. pubblico impiego (che richiama i principi desumibili dall’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) – che per le Regioni a statuto speciale i principi desumibili dal t.u. pubblico impiego costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica. Come tali, essi si impongono al rispetto del legislatore della Regione autonoma (in tal senso, ex multis, sentenze n. 93 del 2019, n. 201; n. 178 del 2018 e n. 16/2020).
In proposito giova rammentare che, secondo un consolidato avviso della Corte costituzionale, da ultimo confermato nella sentenza n. 25 del 2021, «ogni provvedimento legislativo esiste a sé e può formare oggetto di autonomo esame ai fini dell’accertamento della sua legittimità: l’istituto dell’acquiescenza non si applica invero ai giudizi in via principale, atteso che la norma impugnata ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato» (ex plurimis, sentenze n. 237, n. 98 e n. 60 del 2017, n. 39 del 2016, n. 215, n. 124 del 2015 e sentenza n. 286 del 2019)”.

L’articolo 5 comma 26 - al fine di garantire l’assolvimento delle procedure in corso, l’avvio e l’attuazione della programmazione europea 2021/2027 - prevede la possibilità di prorogare, fino ad un massimo di due anni e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, gli incarichi dirigenziali a tempo determinato attribuiti in seguito a procedure ad evidenza pubblica nel sistema Regione ai sensi dell’articolo 29 della legge regionale n. 31 del 1998, secondo le direttive dell’Assessore competente.
In proposito, si evidenzia che l’articolo 29 della legge regionale n. 31/1998, in materia di conferimento degli incarichi ai dirigenti esterni, al comma 4 bis, dispone che “Nelle amministrazioni del sistema Regione, per lo svolgimento delle funzioni di cui agli articoli 25 e 26 possono essere conferiti, con procedure selettive a evidenza pubblica, nei limiti dell'8 per cento delle dotazioni organiche dirigenziali del sistema Regione e secondo le rispettive procedure di nomina, incarichi dirigenziali con contratto di diritto privato a tempo determinato, ai sensi dell'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), la cui durata è determinata nell'avviso entro i limiti di cui all'articolo 28, comma 7”. Il predetto articolo 28, comma 7, dispone che “L’attribuzione delle funzioni ha durata quinquennale e deve tassativamente essere rideliberata entro la scadenza. Decorsi quindici giorni da tale termine, o sessanta giorni dalla sopravvenuta vacanza, senza che gli organi competenti abbiano provveduto, ad essi si sostituisce il Presidente della Giunta, che procede immediatamente, anche in mancanza delle deliberazioni, delle proposte e dei pareri previsti dall'ordinaria procedura di conferimento”.
Al riguardo, occorre rappresentare che il legislatore nazionale, con l’articolo 19 del citato decreto legislativo, ha disciplinato, tra l’altro, la durata minima e massima dei contratti de quibus. Nello specifico il comma 6 stabilisce, con riferimento agli incarichi a soggetti esterni ai ruoli dell’amministrazione conferente, che la durata di questi ultimi “...non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale, di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni...” È previsto altresì che gli incarichi dirigenziali siano rinnovabili.
In proposito, va precisato che l’articolo 40, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) ha modificato l’articolo 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, aggiungendo il comma 6-ter, il quale dispone che i commi 6 e 6-bis si applicano alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo decreto. Quest’ultima norma, a sua volta, stabilisce che per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato e, per quanto qui interessa, anche le Regioni.
Nel merito si evidenzia che il consolidato orientamento della Corte Costituzionale riconduce la disciplina degli incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni all’amministrazione alla materia dell’ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché il conferimento degli incarichi in argomento si realizza mediante la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto privato. Conseguentemente, la disciplina della fase costitutiva di tale contratto, così come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico, appartengono alla materia dell’ordinamento civile di competenza esclusiva statale.
A tal proposito, si riporta la sentenza della Corte costituzionale n. 310/2011 che ha censurato un’analoga fattispecie, disposta con legge regionale, in tema di prosecuzione di incarichi dirigenziali in essere, conferiti anche a soggetti estranei all’amministrazione, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. poiché direttamente incidente sulla disciplina del contratto dei dirigenti esterni e, segnatamente, sui profili connessi all’instaurazione ed alla durata del rapporto. Peraltro, la Consulta, già con la sentenza n. 324/2010, aveva evidenziato che “.......l’articolo 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 contiene una pluralità di precetti relativi alla qualificazione professionale ed alle precedenti esperienze lavorative del soggetto esterno, alla durata massima dell’incarico (e, dunque, anche del relativo contratto di lavoro), all’indennità che – a integrazione del trattamento economico – può essere attribuita al privato, alle conseguenze del conferimento dell’incarico su un eventuale preesistente rapporto di impiego pubblico e, infine, alla percentuale massima di incarichi conferibili a soggetti esterni......”. In tale pronuncia si evince quindi che “...tra i precetti rientranti nella materia dell’ordinamento civile, devono ritenersi compresi anche quelli relativi alla «durata massima dell’incarico (e, dunque, anche del relativo contratto di lavoro)”.
Da ultimo giova rammentare che gli atti inerenti l’instaurazione e la gestione dei rapporti di lavoro, tra cui anche l’eventuale provvedimento amministrativo di rinnovo di un incarico di livello dirigenziale in essere, sono da ricondursi alle attribuzioni proprie delle figure di vertice dirigenziale degli Enti e, come tali, sottratti alle competenze degli organi di indirizzo politico. La separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa costituisce, infatti, un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’articolo 97 della Costituzione (cfr. ex multis Corte Costituzionale, sentenza n. 81/2013) al quale le regioni, pur nel rispetto della loro autonomia, non possono sottrarsi.
La giurisprudenza costituzionale, in particolare, si è espressa nel senso che “l’individuazione dell’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa spetta al legislatore. A sua volta, tale potere incontra un limite nello stesso articolo 97 della Costituzione: nell’identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione” (sentenza n. 81/2013 ult. cit.).
Tanto premesso, in considerazione dei profili di incostituzionalità della previsione normativa in esame, si ritiene necessaria l’impugnativa per contrasto con i principi di cui agli articoli 117, secondo comma, lettera l) e 97 della Cost e con le norme statutarie già richiamate.

L’articolo 5 comma 29 dispone che, al fine di dare attuazione ai commi 4-ter e 4-quater dell’articolo 58 della legge regionale n. 31 del 1998 introdotti dalla legge in esame e istituire una indennità pensionabile in analogia all'indennità di specificità organizzativa percepita dal personale della Protezione civile nazionale, riconosciuta dall'articolo 18 del contratto integrativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri sottoscritto il 15 settembre 2004, per la contrattazione collettiva regionale, è autorizzata, ai sensi dell’articolo 62 della legge regionale n. 31 del 1998 l’ulteriore spesa di euro 285.840 per l'anno 2021 e di euro 1.143.360 annui a decorrere dall'anno 2022 (missione 01 - programma 10 - titolo 1).
Al riguardo, si evidenzia che la disposizione in esame dispone un incremento delle risorse destinate alla contrattazione collettiva regionale per dare attuazione alle previsioni, pure contenute nella legge regionale in esame, intese a costituire per il personale della Direzione generale della protezione civile una autonoma e separata area di contrattazione all'interno del comparto nonché per stabilire discipline specifiche per le figure professionali di altre direzioni generali dell'Amministrazione regionale o del sistema Regione, che concorrono allo svolgimento delle attività di protezione civile previste nel piano regionale per la protezione civile. Tuttavia, la previsione di tale ulteriore spesa viene finalizzata anche al finanziamento dell’istituzione di una indennità pensionabile per il predetto personale, intervenendo di fatto in una materia che è riservata alla contrattazione collettiva e che, pertanto, si pone in contrasto con il principio generale, riconosciuto dalla giurisprudenza dalla Corte Costituzionale, secondo cui, a seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, la disciplina del trattamento giuridico ed economico dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è retta dalle disposizioni del codice civile e dalla contrattazione collettiva, cui la legge dello Stato rinvia. Le medesime considerazioni si impongono anche per il personale delle Regioni. La disciplina del trattamento economico e giuridico, anche con riguardo al pubblico impiego regionale, è riconducibile alla materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenza n. 273 del 2020, si vedano anche sentenze n. 175 e n. 160 del 2017). È dunque precluso alle Regioni adottare una normativa che incida su un rapporto di lavoro già sorto e, nel regolarne il trattamento giuridico ed economico, si sostituisca alla contrattazione collettiva, fonte imprescindibile di disciplina (sentenze n. 20 del 2021 e n. 199 del 2020). Con riferimento alle Regioni a statuto speciale, la Consulta ha indicato la necessità di tener conto delle competenze statutarie che, con particolare riguardo alla Regione autonoma Sardegna, per espressa previsione statutaria, deve comunque essere esercitata nel “rispetto [...] delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica”. Il Giudice delle Leggi, proprio con riguardo al trattamento economico, ha già chiarito con le sentenze n. 257 del 2016 e n. 211 del 2014 che “l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che l’attribuzione di tali trattamenti può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi, mentre l’art. 45 dello stesso decreto ribadisce che il trattamento economico fondamentale ed accessorio è definito dai contratti collettivi” (sentenza n. 154 del 2019, punto 2 del Considerato in diritto). Tale disciplina, secondo la Corte Costituzionale, “costituisce norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica” (sentenza n. 81 del 2019 richiamata dalla già citata sentenza n. 154 del 2019) e detta princìpi che si configurano come “tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti tra privati, princìpi che si impongono anche alle Regioni a statuto speciale” (sentenza n. 189 del 2007, richiamata dalla già citata sentenza n. 81 del 2019).
Tanto premesso, si ritiene di dover impugnare la previsione in esame, per contrasto con la normativa nazionale citata e di conseguenza con l’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost e con le norme statutarie già richiamate.

L’articolo 6, comma 32 dispone che “La validità delle graduatorie relative alle procedure selettive per il reclutamento di personale a tempo determinato e indeterminato, pubblicate dalle aziende ospedaliere, dalle aziende ospedaliere universitarie della Sardegna e dalle amministrazioni del sistema Regione, è prorogata al 31 dicembre 2022”.
Al riguardo, si rammenta che, di recente, la Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 58/2021) è stata chiamata ad esprimersi sul ricorso proposto, in via cautelativa, da alcune Regioni a Statuto Speciale avverso le disposizioni di cui all’art. 1, commi 147 e 149, della l. n. 160/2019 recanti disposizioni sul termine di validità delle graduatorie, nonché sulle condizioni di utilizzo delle stesse (in particolare il comma 149, del modificare l’art. 35, comma 5-ter, del d.lgs. n. 165/2001, ha ridotto tale termine da tre a due anni). Segnatamente, nel dichiarare infondate le questioni proposte, la Consulta ha precisato quanto segue: “(…) deve, pertanto, escludersi che le norme statali in esame, che dettano una disciplina puntuale del termine di validità delle graduatorie, riferendosi genericamente alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, si applichino alla Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste. Ne consegue che non si è determinata alcuna violazione della competenza regionale residuale, né del principio di leale collaborazione, non essendo le norme denunciate destinate a spiegare alcuna efficacia nel territorio regionale neppure quali norme recanti principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica. Ciò vale anzitutto in riferimento all’uso di graduatorie inerenti a procedure selettive pubbliche di personale sanitario, posto che il legislatore statale, non concorrendo «al finanziamento della spesa sanitaria, “neppure ha titolo per dettare norme di coordinamento finanziario” (sentenza n. 341 del 2009)» (sentenza n. 133 del 2010; nello stesso senso, successivamente, sentenze n. 115 e n. 187 del 2012 e n. 125 del 2015; nello stesso senso anche sentenza n. 241 del 2018). Ad analoga conclusione deve, in ogni caso, giungersi in riferimento a tutte le graduatorie che concludono concorsi pubblici. Anche ove si volesse configurare la disciplina della validità delle graduatorie concorsuali, sebbene non più affiancata a misure di contenimento delle assunzioni, come disciplina recante principi di coordinamento della finanza pubblica, essa non potrebbe imporsi alla Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, in assenza di una specifica previsione mediante un apposito accordo. Tali principi, infatti, non possono imporsi alle autonomie speciali ove non siano «individuati nel rispetto del “principio dell’accordo, inteso come vincolo di metodo (e non già di risultato) e declinato nella forma della leale collaborazione (sentenze n. 88 del 2014, n. 193 e n. 118 del 2012)” (sentenza n. 103 del 2018)» (sentenza n. 273 del 2020). Le disposizioni statali impugnate non possono, inoltre, ritenersi applicabili alla Regione autonoma come unica declinazione possibile dei principi di ragionevolezza, buon andamento e imparzialità dell’amministrazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost., da intendersi come limiti all’esercizio della sua competenza (sentenze n. 126 e n. 77 del 2020). Questa Corte ha già affermato che «[l]’ampio campo di azione riservato al legislatore valdostano consente allo stesso di intervenire […] con efficienza e ragionevolezza nella gestione delle graduatorie, anche tenendo conto della posizione degli idonei» (sentenza n. 77 del 2020). In quell’occasione è emerso con chiarezza che le norme statali non limitano la competenza della Regione, purché nel disciplinare le graduatorie il legislatore regionale contemperi il reclutamento imparziale degli idonei e verifichi la perdurante attitudine professionale degli stessi. In tal modo, nell’esercitare la propria competenza, la Regione non entra in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., proprio perché tale esercizio «costituisce una delle possibili espressioni del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione» (sentenza n. 77 del 2020). Questo ormai costante orientamento non può che trovare conferma nel presente giudizio”.
La competenza esclusiva delle Regioni in materia, come ribadita dalla Corte, non può dunque ritenersi svincolata dal rispetto dai limiti scaturenti dai principi costituzionali di buon andamento, imparzialità e ragionevolezza. Tali principi, quali parametri cui raffrontare l’esercizio della discrezionalità regionale in ordine allo scorrimento di graduatorie ancora valide, la Consulta ha altresì avuto modo di meglio dettagliare nella sentenza n. 126/2020, in particolare: “Lo scorrimento delle graduatorie ancora valide è assoggettato a limitazioni, che valgono a renderlo compatibile con i princìpi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione (…). Il canone di imparzialità consente di ricorrere allo scorrimento delle graduatorie, nel rigoroso rispetto dell’ordine di merito, solo quando vi sia un’integrale corrispondenza tra il profilo e la qualifica professionale del posto che si intende coprire, da un lato, e, dall’altro, il profilo e la categoria professionale per i quali si è bandito il concorso poi concluso con l’approvazione delle graduatorie. Non vi è scorrimento per posti di nuova istituzione o frutto di trasformazione, per evitare rimodulazioni dell’organico in potenziale contrasto con i princìpi di imparzialità prescritti dalla Costituzione. Il buon andamento, per altro verso, preclude di scorrere le graduatorie, quando sia mutato il contenuto professionale delle mansioni tipiche del profilo che si intende acquisire o quando, per il tempo trascorso o per le modifiche sostanziali nel frattempo introdotte nelle prove di esame e nei requisiti di partecipazione dei concorrenti, la graduatoria già approvata cessi di rispecchiare una valutazione attendibile dell’idoneità dei concorrenti e della qualificazione professionale necessaria per ricoprire l’incarico”.
In questa cornice la Corte ha altresì evidenziato che “La disciplina dell’accesso all’impiego regionale deve dunque essere scrutinata alla luce delle peculiarità che la contraddistinguono, delle finalità che essa persegue e del complessivo contesto in cui si colloca.” (cfr. sent. n. 126/2020 cit.).
A tal proposito, il personale assunto dagli enti locali o dalle regioni, siano essi a statuto ordinario o a statuto speciale, possono oggi, alla luce della disciplina introdotta con l’articolo 3, del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, fruire senza vincoli di autorizzazione, della più ampia mobilità verso le pubbliche amministrazioni.
Tale circostanza rende assolutamente indispensabile che il personale sia reclutato attraverso procedure che garantiscano il più alto livello di omogeneità, per raggiungere il quale anche l’attualità della selezione effettuata costituisce un ineludibile passaggio. Ne consegue che il reclutamento del personale deve avvenire entro tempi ragionevolmente brevi rispetto al momento in cui è stata svolta la selezione, affinché la stessa risponda ai requisiti previsti dal quadro ordinamentale di riferimento.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la norma in questione deve essere impugnata per violazione dei principi di cui agli articoli 97 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione e delle norme statutarie già richiamate.


L'articolo 3, primo comma, lettera f), dello Statuto riconosce alla regione Sardegna una autonomia più ampia di quella risultante dalla norma costituzionale generale di cui all'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, attribuendo potestà legislativa primaria nella materia dell'edilizia ed urbanistica.
Va tuttavia precisato che, in base al medesimo articolo 3 dello Statuto, la potestà legislativa primaria della regione, deve esplicarsi "in armonia con la Costituzione e i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico sociali della Repubblica", e quindi necessariamente nel rispetto delle previsioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, dettate dallo Stato nell'esercizio della potestà legislativa esclusiva di cui all'articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.
Nel sottolineare la portata unitaria e complessa della nozione di territorio, su cui «gravano più interessi pubblici: quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e quelli concernenti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni» (Corte Costituzionale sentenza n. 367 del 2007; nello stesso senso, fra le altre, sentenze n. 164 del 2021 e n. 66 del 2018) va ribadito che, in quanto incide sul paesaggio, valore costituzionale «primario» e «assoluto» (Corte Costituzionale sentenze n. 641 del 1987 e n. 151 dei 1986) la tutela ambientale e paesaggistica, affidata allo Stato, «precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente -delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali» (Corte Costituzionale sentenza n. sentenza n. 367 del 2007).
La Corte Costituzionale, proprio con riferimento alla Regione autonoma della Sardegna, ha affermato che «la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all'articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato [e che ] le disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio si impongono al rispetto del legislatore della Regione autonoma della Sardegna, anche in considerazione della loro natura di norme di grande riforma economico-sociale e dei limiti posti dallo stesso statuto sardo alla potestà legislativa regionale» (sentenze n. 210 del 2014 e n. 51 del 2006). Pertanto, la competenza primaria ed esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio, comporta che: «[...] il legislatore della Regione autonoma della Sardegna non può esercitare unilateralmente la propria competenza statutaria nella materia edilizia e urbanistica quando siano in gioco interessi generali riconducibili alla predetta competenza esclusiva statale e risultino in contrasto con norme fondamentali di riforma economico-sociale» Corte Costituzionale sentenza n. 103 del 2017.

Nell'ambito della prospettiva sopra illustrata si colloca il principio della "gerarchia" degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali, espresso dall'articolo 145 del d.lgs. n. 22 gennaio 2004, n. 42 Corte Costituzionale sentenza n. 180 del 2008.
In tale contesto, il piano paesaggistico regionale - le cui prescrizioni sono «cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province» e «immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici» (art. 145, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004) - è «strumento di ricognizione del territorio oggetto di pianificazione non solo ai fini della salvaguardia e valorizzazione dei beni paesaggistici, ma anche nell'ottica dello sviluppo sostenibile e dell'uso consapevole del suolo, in modo da poter consentire l'individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio» Corte Costituzionale sentenza n. 172 del 2018. Per tale motivo, la Corte Costituzionale ha affermato la necessità di salvaguardare «la complessiva efficacia del piano paesaggistico, ponendola al riparo dalla pluralità e dalla parcellizzazione degli interventi delle amministrazioni locali» sentenza n. 182 del 2006.
Alla luce del delineato quadro normativo e giurisprudenziale, l'articolo 13, commi 60 e 61 della legge regionale de qua, nel consentire interventi di trasformazione del territorio al di fuori del contesto pianificatorio condiviso con lo Stato, sono lesive della competenza legislativa esclusiva statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e del principio di leale collaborazione di cui agli articoli 5 e 120 Cost.
In particolare, il comma 60 dell'articolo 13 della legge regionale in oggetto (recante modifiche all'articolo 37 della legge regionale 11 ottobre 1985, n. 23), nel prevedere che “[...] Nelle more dell'approvazione dei Piani di risanamento urbanistico, dell'adeguamento del Piano urbanistico comunale al Piano paesaggistico regionale, ed entro ventiquattro mesi dalla adozione dell'atto di cui alla lettera c), i comuni possono rilasciare ai richiedenti che ne facciano specifica istanza, il permesso di costruire o l'autorizzazione in sanatoria alle seguenti condizioni: a) che sussistano tutti gli altri presupposti di legge; b) che gli insediamenti da assoggettare a risanamento urbanistico siano stati individuati e perimetrati ai sensi dell'articolo 38, comma 1 lettera a,); c) che il comune, con apposito atto, stabilisca. [...J»:
a) introduce modifiche alla attuazione del Piano Paesaggistico Regionale, in violazione dell'articolo 145 comma 5 (secondo cui "La regione disciplina il procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica, assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo”) e dell'articolo 143, comma 9 del citato decreto legislativo n. 42 del 2004 (a tenore del quale: 'A far data dall'adozione del piano paesaggistico non sono consentiti, sugli immobili e nelle aree di cui all'articolo 134, interventi in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel piano stesso. A far data dalla approvazione del piano le relative previsioni e prescrizioni sono immediatamente cogenti e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici);
b) si pone in contrasto con l'articolo 107 delle norme tecniche di attuazione del Piano paesaggistico regionale e il comma 4 ("I comuni, le città metropolitane, le province e gli enti gestori delle aree naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale, entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre due anni dalla loro approvazione. I li,n iii alla proprietà derivanti da tali previsioni non sono oggetto di indennizzo") dell'articolo 145 del citato decreto legislativo che prevedono tempi e criteri di adeguamento dei Piani urbanistici comunale, che nella legge regionale in esame sono rideterminati unilateralmente dalla regione senza alcuna partecipazione statale. Al riguardo, si sottolinea che la regione Sardegna ha approvato il piano paesaggistico regionale, primo ambito omogeneo, con deliberazione della giunta regionale n. 36/7 del 5 settembre 2006 (c.d. "PPR dell'ambito costiero") e che le norme tecniche di attuazione del suddetto piano fissano a un anno il termine per l'adeguamento del Piano urbanistico comunale;
e) viola le previsioni dei commi 3 (secondo cui: "Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli Strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto ottiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree nat urali protette") e 4 del citato articolo 145, che richiedono che la legge regionale disciplini «le procedure di adeguamento degli altri strumenti di pianificazione e le connesse misure di governo del territorio in linea con le determinazioni del nuovo piano paesaggistico o, nell'attesa dell'adozione, secondo le modalità concertate e preliminari alla sua stessa adozione». (sentenza n. 86 del 2019.)

In sostanza, l’articolo 13, comma 60 introduce, nell’art. 37 della legge regionale 11 ottobre 1985, n. 23, una nuova previsione derogatoria all’obbligo sancito dall’art. 145, comma 4 del d.lgs. n. 42 del 2004, con riferimento alla necessità che il Piano urbanistico comunale (PUC) sia adeguato, entro due anni, al Piano paesaggistico regionale (nel caso della regione Sardegna tale termine è ridotto ad un anno dal combinato disposto degli articoli 4, comma 3, e 107, comma 1, delle Norme Tecniche di Attuazione del PPR).
Infatti, la disposizione del nuovo comma 8-bis, introdotto al richiamato art. 37, non contiene limiti temporali rispetto alla suddetta necessità di adeguamento, il quale termine già previsto dal PPR, d’altronde, è abbondantemente trascorso, vista l’efficacia intervenuta fin dal 9 settembre 2006 del medesimo PPR relativo agli ambiti costieri (“PPR - Primo ambito omogeneo”).
Ancora, la previsione derogatoria non appare attenuarsi neanche con riferimento a quanto previsto alla lett. a) del medesimo comma 8-bis (“a) che sussistano tutti gli altri presupposti di legge”), per l’evidente fatto che l’applicazione della richiamata norma derogatoria, in mancanza dell’adeguamento del PUC al PPR, rende inefficaci dal punto di vista urbanistico le previsioni regolatrici della gestione e tutela del patrimonio culturale paesaggistico e del paesaggio (costituite dagli indirizzi e dalle direttive) sancite dal PPR con le relative NTA, ai fini dell’adeguamento obbligatorio degli strumenti urbanistici comunali.
Per quanto sopra, il comma 60 dell’art. 13 della legge regionale 22 novembre 2021, n. 17, è costituzionalmente illegittimo per i motivi sopra esposti ed in quanto in contrasto con quanto sancito dal comma 4 dell’art. 145 del D.Lgs. n. 42 del 2004 quale norma interposta.

Il successivo comma 61 dell'articolo 13 della legge regionale in esame dispone che: «Nell'articolo 28 della legge regionale 18 gennaio 2021, n. 1.... sono apportate le seguenti modifiche:
(a) nel comma 2 la frase dall'inizio fino alle parole "al PPR ", è sostituita dalla seguente: "Con esclusione di quelle ricadenti nelle zone omogenee A, B e D, nonché nelle zone C e G contermini agli abitati, tutte come individuate negli strumenti urbanistici vigenti in base al decreto assessoriale 20 dicembre 1983, n. 22661U",
b) nel comma 3 le parole "lettere a), b), c) e d) ", sono sostituite dalle parole "lettere a), b), c), d) ed e)";
c) dopo il comma 3 è aggiunto il seguente: "3 bis. Sono in ogni caso fatti salvi i piani di risanamento urbanistico attuati e quelli già regolarmente approvati, con convenzione efficace."».
Il comma 61, quindi, introduce nell’art. 28 della legge regionale 18 gennaio 2021, n. 1, una ulteriore modifica sostanziale nelle relative previsioni edificatore in ambiti tutelati paesaggisticamente dal PPR con riguardo al bene paesaggistico tipizzato e individuato delle “zone umide” (non già riconosciute ai sensi della Convenzione di Ramsar, richiamata dall’art. 142, comma 1, lett. i, del D.Lgs. n. 42 del 2004), bene paesaggistico definito dal medesimo PPR (v. art. 17, comma 3, lett. g, delle NTA).

Al riguardo, nel premettere che l'articolo 28 della legge regionale 18 gennaio 2021, n. 1 è stata oggetto di impugnativa deliberata nella seduta del Consiglio dei ministri del 19 marzo 2021, si evidenzia che vengono ulteriormente ampliate sia le aree che le tipologie di intervento ammesse nelle "zone umide", introducendo in esse anche quelli di "nuova costruzione", come definiti dalla lettera e), dell'articolo 3, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380.
La legge regionale 18 gennaio 2021, n. 1 è stata impugnata davanti alla Corte Costituzionale (ricorso n. 22/2021), anche in riferimento a quanto sancito dal relativo ex art. 27 (rinumerato al n. 28 a seguito dell’avviso pubblicato in BURAS 21 gennaio 2021, n. 6).
In particolare, il richiamato comma 61, alla lett. a) introduce una modifica al previgente comma 2 dell’art. 28 (ex 27) della l.r. n. 1 del 2021, per la quale non si prevede più la inedificabilità delle zone urbanistiche E ed F dei comuni che non hanno adeguato il proprio PUC al PPR, di fatto riducendo i livelli di tutela paesaggistica già vigenti delle sopra citate “zone umide” per le corrispondenti zone agricole (E) e zone turistiche (F), in quanto le stesse zone urbanistiche sono nuovamente urbanizzabili ed edificabili.
Anche le modifiche apportate dalla lett. b) del comma 61 dell’art. 13 al comma 3 dell’art. 28 (ex 27) della l.r. n. 1 del 2021 riducono i livelli di tutela delle richiamate “zone umide”, in quanto la nuova previsione regionale aggiunge tra gli interventi consentiti nella relativa fascia di tutela anche gli “interventi di nuova costruzione”, come definiti dalla lett. e) dell’art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ugualmente, l’introduzione operata dalla lett. c) del comma 61 all’art. 28 (ex 27) della l.r. n. 1 del 2021, con la previsione di un nuovo comma 3-bis (“3-bis. Sono in ogni caso fatti salvi i piani di risanamento urbanistico attuati e quelli già regolarmente approvati, con convenzione efficace”), risulta ridurre la tutela riconosciuta al bene paesaggistico tipizzato ed individuato dal PPR come “zona umida”, in quanto non sancisce in alcun modo che i richiamati “piani di risanamento urbanistico” (v. art. 37 della l.r. n. 23 del 1985, già oggetto di modifiche con il comma 60 del presente articolo 13) debbano essere stati approvati, quali “piani attuativi”, a seguito dell’avvenuto adeguamento del PUC al PPR, come anche che il valido termine di efficacia della relativa convenzione debba riferirsi a quelli stabiliti ai commi 2 e 3 dell’art. 15 delle NTA del PPR, ossia non alla data di entrata in vigore della presente legge regionale n. 17 del 2021, ma a quelli più stringenti, rispettivamente, della D.G.R. n. 33/1 del 10/08/2004 e di adozione del medesimo PPR (D.G.R. n. 22/3 del 24/05/2006).
Per quanto sopra, anche il comma 61 dell’art. 13 ha i medesimi profili di incostituzionalità ripresi per il sopra citato art. 28 (ex 27) nell’impugnativa di cui al ricorso n. 22/2021 davanti alla Corte Costituzionale per quanto attiene agli artt. 3, 9 e 117, commi primo e secondo, lettera s) della Costituzione; alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), art. 3 che affida alla Regione competenza esclusiva in materia di edilizia ed urbanistica alla lettera f), ma nel rispetto della Costituzione, degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica; decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, artt. 135, 143, 145 e 156; legge 9 gennaio 2006, n. 14, di ratifica della Convenzione europea del paesaggio fatta a Firenze il 20 ottobre 2000.

Inoltre, le medesime disposizioni confliggono con il principio di leale collaborazione di cui agli articoli 5 e 120 Cost., per mancata osservanza dell'obbligo della pianificazione concertata e condivisa, prescritta dalle norme statali in quanto idonea a garantire l'ordinato sviluppo urbanistico e a individuare le trasformazioni compatibili con le prescrizioni statali del citato Codice dei beni culturali e del paesaggio. Contravvenendo agli impegni assunti con lo Stato, la Regione viola tale principio, “il cui rilievo è confermato dal legislatore statale come norma di grande riforma economico-sociale che vincola l’autonomia speciale” (Corte cost. n. 257 del 2021).

Articolo 20 - Modifiche alla legge regionale n. 45 del 1989 in materia di esecuzione dei provvedimenti di demolizione e rimessione in pristino.
Il comma 1 apporta modifiche alla legge regionale n. 45 del 1989, in materia di esecuzione dei provvedimenti di demolizione e rimessione in pristino e, in particolare, autorizza l’Amministrazione regionale a concedere una anticipazione delle spese ai comuni che sono tenuti ad eseguir i provvedimenti di demolizione o di rimessione in pristino, senza interessi e con restituzione entro cinque anni delle somme recuperate dai comuni.
Al riguardo, l’operazione prevista non viene estinta nello stesso esercizio nel quale è contratta e, pertanto, non si configura come anticipazione, bensì come prestito; conseguentemente la disposizione comporta oneri a carico del bilancio regionale in relazione all’attribuzione delle risorse ai comuni, non quantificati e per i quali non viene indicata la copertura finanziaria. Pertanto, la disposizione contrasta con l’articolo 81, terzo comma, della Costituzione.

L'articolo 35 (Estensione alle Autorità di garanzia regionali delle norme in materia di scadenza degli organi e del potere sostitutivo e modifiche alla L. R. n. 2 del 2014 e alla L. R. n. 11 del 2019 in materia di poteri e prerogative consiliari), comma 5 prevede, con efficacia retroattiva a decorrere dalla XV legislatura (ossia dal 2014), la rivalutazione delle indennità e dei rimborsi spese per i consiglieri regionali con particolari funzioni e i componenti della Giunta regionale che non siano consiglieri, in misura pari a quella rilevata dall’Istat.
La disposizione, infatti, introduce i commi 5-bis e 5-ter all'articolo 2 della legge regionale 9 gennaio 2014, n. 2 (Razionalizzazione e contenimento della spesa relativa al funzionamento degli organi statutari della Regione) prevedendo, per i consiglieri regionali, per quelli tra essi che svolgono particolari funzioni nonché per i componenti della Giunta regionale che non siano consiglieri - il cui trattamento economico è equiparato in parte ai primi in forza dell'art. 3 della l.r. n. 2 del 2014 - la rivalutazione delle indennità e dei rimborsi spese spettanti nella misura pari alla variazione, se positiva, rilevata dall'ISTAT dell'indice dei prezzi al consumo (FOI).
Il comma 5-ter stabilisce che tale rivalutazione decorra dalla XV legislatura.
Tale disposizione di contenuto retroattivo determina effetti economici in contrasto con le disposizioni di contenimento della spesa pubblica.
L’articolo 2 del DL174/2012 dispone che “1. Ai fini del coordinamento della finanza pubblica e per il contenimento della spesa pubblica, a decorrere dal 2013 una quota pari all'80 per cento dei trasferimenti erariali a favore delle regioni, …, è erogata a condizione che la regione, con le modalità previste dal proprio ordinamento, entro il 23 dicembre 2012, ovvero entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto ... abbia definito l'importo dell'indennità di funzione e dell'indennità di carica, nonché delle spese di esercizio del mandato, dei consiglieri e degli assessori regionali, spettanti in virtù del loro mandato, in modo tale che non ecceda complessivamente l'importo riconosciuto dalla regione più virtuosa. La regione più virtuosa è individuata dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano entro il 10 dicembre 2012.
Il comma 4, dello stesso articolo dispone che "le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono ad adeguare i propri ordinamenti a quanto previsto dal comma 1 compatibilmente con i propri statuti di autonomia e con le relative norme di attuazione.
“La Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, tuttavia, con Delibera del 30 ottobre 2012 confermata dalla Delibera del 6 dicembre 2012, ha individuato la "regione più virtuosa" e indicato gli importi lordi onnicomprensivi per i Presidenti (13 .800 euro lordi) e per i consiglieri regionali (11.100 euro lordi)”.
La disposizione di cui al predetto comma 5-ter, pertanto, viola il criterio stabilito dalla Conferenza Stato-regioni che dà attuazione alla disposizione di cui all'articolo 2, comma 1, lett. b), del decreto-legge n.174/2012 convertito dalla legge n. 213 del 2012 e, per esso, il parametro costituzionale del "coordinamento della finanza pubblica" ponendosi in contrasto con l'art. 117, terzo comma, Cost. che impone alle Regioni, incluse quelle ad autonomia speciale, il rispetto dei principi fondamentali contenuti nella legge statale.
L’articolo 26 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 dispone che “I consiglieri regionali ricevono una indennità fissata con legge regionale”
L’articolo 2 della legge regionale 2/2014, in attuazione del sopra citato articolo 26 dello Statuto speciale per la Regione Sardegna, ha definito il trattamento economico spettante ai consiglieri regionali, al Presidente della Regione, al Presidente del Consiglio e ai componenti della Giunta regionale. Per le finalità che qui rilevano si evidenzia che sommando le diverse componenti di tale trattamento economico (indennità consiliare; rimborso forfettario per le spese inerenti all'esercizio del mandato; indennità di carica per i consiglieri che svolgono particolari funzioni e l’eventuale rimborso per le spese di trasporto) l’emolumento massimo erogabile per i Presidenti è pari a 13.600 euro annui mentre per i consiglieri è di 11.100 euro annui.
Tanto premesso se ne deduce che, quantomeno per i consiglieri regionali la cui retribuzione è già al limite massimo fissato dalla Conferenza, qualsiasi incremento di tali importi si porrebbe oltre i citati limiti.
La disposizione viola, altresì, il principio di ragionevolezza, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione di cui agli articoli 3 e 97 della Costituzione.
La disposizione appare altresì lesiva del principio di leale collaborazione, che trova il suo ancoraggio negli articoli 5 e 120 della Costituzione, in quanto derogherebbe unilateralmente con legge regionale all'Intesa sancita in sede di Conferenza Stato-Regioni con le Delibere 30 ottobre 2012 e del 6 dicembre 2012.

L'articolo 39, comma 1 lett. b), nel novellare l'articolo 41 della legge regionale n. 23/1998, introduce un nuovo comma 1-bis, ai sensi del quale "i caricatori dei fucili ad anima rigata a ripetizione semiautomatica non possono contenere più di due cartucce durante l'esercizio dell'attività venatoria ad eccezione della caccia al cinghiale per la quale possono contenere fino a cinque cartucce".
La disposizione determina uno sconfinamento in materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato e presenta evidenti profili di illegittimità costituzionale.
Nello specifico, la materia oggetto della novella, riassumibile nella disciplina dell'utilizzo dei caricatori dei fucili ad anima rigata durante l'esercizio dell'attività venatoria, rientra nell'area "armi, munizioni ed esplosivi", di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera d) della Costituzione oltre a presentare evidenti ricadute sul piano dell'ordine e della sicurezza pubblica, di cui alla lettera h) della medesima disposizione della Carta fondamentale.
Inoltre la citata norma regionale risulta ultronea: è infatti meramente riproduttiva dell'articolo 13 della legge li febbraio 1992, n. 157, concernente le norme per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio. L'intervento normativo regionale, pertanto, oltre a porsi in contrasto con le suddette norme costituzionali, dà luogo ad un fenomeno di gemmazione normativa, foriero di possibili future distorsioni applicative, come l’ipotesi di sopravvivenza della disposizione regionale in caso di un’eventuale modifica o novazione della normativa nazionale.
Anche in questo ultimo caso il legislatore regionale eccede dalle competenze assegnate dallo Statuto speciale di autonomia.




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