Dettaglio Legge Regionale

Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2021. (16-12-2021)
Lombardia
Legge n.23 del 16-12-2021
n.51 del 20-12-2021
Politiche ordinamentali e statuti
11-2-2022 / Impugnata
Con la presente legge la Regione Lombardia opera una seconda revisione normativa ordinamentale relativamente all’anno 2021.
Tuttavia la presente legge è censurabile per le seguenti motivazioni:

L’articolo 6, comma 1, lettera a), apporta modifiche e integrazioni all’articolo 154 della legge regionale 5 dicembre 2008, n. 31 del 2008, che disciplina, nell’ambito del Titolo X “Multifunzionalità dell’azienda agricola e diversificazione in agricoltura”, i locali da destinare ad attività agrituristiche.
La norma sostituisce il secondo periodo del comma 3 dell’articolo 154 “È, altresì, consentito, per una sola volta, l’ampliamento nella misura massima del dieci per cento della superficie lorda di pavimento destinata a uso agrituristico sulla base della potenzialità agrituristica risultante dal certificato di connessione.” – con il seguente: "È, altresì, consentito, per una sola volta, l’ampliamento nella misura massima del dieci per cento della superficie lorda dei fabbricati, individuati nel certificato di connessione, già destinati o da destinare all'attività agrituristica.".
In virtù di tale modifica il comma 3 dell’articolo 154 risulta così formulato: “3. Il riuso degli immobili rurali destinati ad agriturismo, anche distaccati, può avvenire attraverso interventi di ristrutturazione edilizia, di restauro e risanamento conservativo e attraverso ampliamenti necessari all'adeguamento igienico-sanitario e tecnologico. È, altresì, consentito, per una sola volta, l'ampliamento nella misura massima del dieci per cento della superficie lorda dei fabbricati, individuati nel certificato di connessione, già destinati o da destinare all'attività agrituristica.”.
È quindi evidente che la modifica introdotta dall’articolo 6 della legge in questione ha l’effetto di ampliare la portata della disposizione di cui al citato articolo 154.
Se, infatti, anteriormente alla stessa, ad essere consentito era solo l’ampliamento nella misura massima del dieci per cento della superficie lorda di pavimento destinata a uso agrituristico, odiernamente ad essere consentito è l’ampliamento, sempre nella misura massima del dieci per cento, della superficie lorda dei fabbricati non solo già destinati, ma anche da destinare, in futuro, all’attività agrituristica.
La previsione in esame introduce, quindi, una premialità volumetrica a regime, destinata a trovare applicazione nelle zone agricole; premialità che risulta di rilevante entità in rapporto ai ristretti limiti di densità edilizia previsti in tali aree (cfr. articolo 7, n. 3, del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 e articolo 59 della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005). Tale premialità è prevista in modo indiscriminato, prescindendo da qualsiasi valutazione degli specifici contesti, i quali non di rado consistono in ambiti di particolare pregio paesaggistico.
Il secondo periodo del comma 3 dell’articolo 154 della legge n. 31 del 2008, per come sostituito dall’articolo 6 della legge n 23 del 2021, risulta manifestamente affetto da illegittimità costituzionale, sotto i profili di seguito illustrati.

La disposizione in esame prevede, invero, ex lege la possibilità generalizzata di realizzare incrementi volumetrici nella misura massima del dieci per cento della superficie lorda dei fabbricati ivi indicati, senza alcuna considerazione del contesto paesaggistico.
La scelta operata dalla Regione presenta rilevanti profili di criticità rispetto alla disciplina di tutela dei beni culturali e paesaggistici, contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, risultando invasiva della potestà legislativa esclusiva spettante allo Stato ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.
Gli incrementi volumetrici in questione sono collocati al di fuori del necessario quadro di riferimento che dovrebbe essere costituito dalle previsioni del piano paesaggistico, ai sensi degli articoli 135, 143 e 145 del Codice di settore. Soltanto a quest’ultimo strumento, elaborato d’intesa tra Stato e Regione, spetta infatti di stabilire, per ciascuna area tutelata, le c.d. prescrizioni d’uso (e cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e di individuare la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni.
L’articolo 6, dunque, contrasta con la scelta del legislatore statale di rimettere alla pianificazione la disciplina d’uso dei beni paesaggistici (c.d. vestizione dei vincoli) ai fini dell’autorizzazione degli interventi, come esplicitata negli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturale e del paesaggio, costituenti norme interposte rispetto al parametro costituzionale di cui agli articoli 9 e 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.
La parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio delinea un sistema organico di tutela paesaggistica, inserendo i tradizionali strumenti del provvedimento impositivo del vincolo e dell’autorizzazione paesaggistica nel quadro della pianificazione paesaggistica del territorio, che deve essere elaborata concordemente da Stato e Regione.
Il legislatore nazionale, nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia, ha assegnato dunque al piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale. Gli articoli 143, comma 9, e 145, comma 3, del Codice di settore sanciscono infatti l’inderogabilità delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché l’immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte cost. n. 180 del 2008).
Si tratta di una scelta di principio la cui validità e importanza è già stata affermata più volte dalla Corte costituzionale, in occasione dell’impugnazione di leggi regionali che intendevano mantenere uno spazio decisionale autonomo agli strumenti di pianificazione dei Comuni e delle Regioni, eludendo la necessaria condivisione delle scelte attraverso uno strumento di pianificazione sovracomunale, definito d’intesa tra lo Stato e la Regione. La Corte ha, infatti, affermato l’esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (Corte cost. n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica “è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale” (Corte cost., n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009).
Come evidenziato dalla Corte, “Quanto detto non vanifica le competenze delle regioni e degli enti locali, «ma è l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali» (sentenza n. 182 del 2006; la medesima affermazione è presente anche nelle successive sentenze n. 86 del 2019, n. 68 e n. 66 del 2018, n. 64 del 2015 e n. 197 del 2014)” (Corte cost. n. 240 del 2020).
Mediante la legge in esame, la Regione Lombardia si sottrae dunque ingiustificatamente al proprio obbligo di redazione congiunta con lo Stato del piano paesaggistico, esercitando una funzione di disciplina del paesaggio e dei beni paesaggistici in modo del tutto autonomo, nonostante la co-pianificazione costituisca un principio inderogabile posto dal Codice (Corte cost. n. 240 del 2020).
Il dedotto profilo di illegittimità costituzionale della disposizione regionale censurata non può essere superato sulla base della considerazione che non è prevista la possibilità di realizzare gli incrementi volumetrici in contrasto con la pianificazione paesaggistica e che tali interventi rimangono, comunque, subordinati al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Quanto al primo aspetto, è sufficiente ricordare che la Regione Lombardia, nonostante il tempo trascorso dall’entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del paesaggio, non è ancora munita di un piano paesaggistico conforme alla disciplina legislativa statale, ossia adottato in esito al processo di co-pianificazione e avente i contenuti di cui agli articoli 135 e 143 del medesimo Codice. Conseguentemente, la disposizione censurata, pur non violando un (inesistente) piano paesaggistico ai sensi del Codice, risulta essa stessa elusiva dell’obbligo di co-pianificazione, in quanto svolge una funzione di disciplina del paesaggio agrario che il Codice demanda proprio al piano paesaggistico.
D’altro canto, il fatto che gli interventi consentiti dalla legge regionale rimangano subordinati all’autorizzazione paesaggistica non elide l’illegittimità costituzionale della previsione.
Al riguardo, deve rammentarsi che, sin dalla legge n. 1497 del 1939, il legislatore ha previsto, con riferimento alla tutela del paesaggio, tre distinti strumenti: (i) il vincolo, mediante il quale il bene viene individuato e sottoposto a tutela; (ii) l’autorizzazione, che è finalizzata a controllare le trasformazioni del bene; (iii) il piano paesaggistico, che ha lo scopo di operare una valutazione complessiva del contesto tutelato, proprio allo scopo di evitare che la considerazione parcellizzata degli interventi (quale operata a valle mediante l’autorizzazione) non consenta di mettere a fuoco e di tutelare gli specifici profili di pregio paesaggistico.
Il ruolo del piano paesaggistico è stato successivamente rilanciato e potenziato dalla legge n. 431 del 1985 (c.d. legge Galasso), che ha previsto l’obbligo di pianificazione paesaggistica per tutti gli ambiti vincolati ex lege ai sensi dell’articolo 1 della medesima legge (oggi trasfuso nell’articolo 142 del Codice) e in ulteriori ambiti individuati dalle Regioni.
Da ultimo, il Codice dei beni culturali e del paesaggio ha stabilito l’obbligo generalizzato di pianificazione paesaggistica regionale di tutto il territorio, vincolato e non, nonché l’obbligo di co-pianificazione con lo Stato per tutti gli ambiti soggetti a vincolo paesaggistico (articolo 135).
Il ruolo sempre più pregnante assegnato dal legislatore alla pianificazione paesaggistica deriva proprio dalla consapevolezza dell’insufficienza del solo strumento dell’autorizzazione a costituire un adeguato presidio di tutela dei valori paesaggistici. In sede di rilascio dell’autorizzazione è infatti consentita, come detto, soltanto una valutazione del singolo intervento, che non consente di apprezzare e di governare l’effetto derivante dal cumulo delle trasformazioni.
Ne deriva che la previsione regionale censurata non può essere ritenuta legittima per il mero fatto che non deroga all’obbligo di autorizzazione paesaggistica, atteso che essa menoma, per le ragioni sopra illustrate, la pianificazione paesaggistica, costituente strumento cardine di tutela del paesaggio, autonomo rispetto all’autorizzazione.
Si rammenta che, la Regione Lombardia, in data 21 luglio 2017, ha sottoscritto con il Ministero per i beni e le attività culturali (ora Ministero della cultura) un protocollo di intesa per la redazione congiunta del piano paesaggistico e, al momento, sono in corso interlocuzioni finalizzate al rinnovo della stessa.
In questa prospettiva, dunque, l’articolo 6 della legge regionale in oggetto si presenta quale frutto di una scelta assunta unilateralmente dalla Regione, al di fuori del percorso avviato con lo Stato per l’attività di co-pianificazione paesaggistica.
Essa, dunque, risulta altresì dettata in violazione del principio di leale collaborazione, il quale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, “deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni”, atteso che “la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti” (così in particolare, tra le tante, Corte cost. n. 31 del 2006).
Al riguardo, la Corte ha chiarito, tra l’altro, che il predetto principio “(…) anche in una accezione minimale, impone alle parti che sottoscrivono un accordo ufficiale in una sede istituzionale di tener fede ad un impegno assunto” (così ancora la sentenza da ultimo richiamata).
La scelta della Regione, dunque, di assumere iniziative unilaterali, al di fuori del percorso di condivisione avviato con lo Stato per l’attività di co-pianificazione paesaggistica, si pone, in sostanza, in contrasto anche con il principio di leale collaborazione (con riferimento alla leale collaborazione ai fini della pianificazione paesaggistica cfr. Corte cost. n. 240 del 2020, nonché Corte Cost. n. 257 del 2021 e n. 219 del 2021).
Alla luce di tutto quanto sopra illustrato, emerge la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché del principio di leale collaborazione.
Inoltre, l’abbassamento del livello della tutela determinato dall’articolo 6 della legge n. 23 del 2021 comporta la violazione anche dell’art. 9 della Costituzione, che sancisce la rilevanza della tutela del paesaggio quale interesse primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007).

L’articolo 6 della legge regionale in oggetto si pone anche in contrasto con il principio di necessaria considerazione dei valori paesaggistici del territorio, anche non vincolato, e della sua apposita pianificazione.
Al riguardo, deve tenersi presente che tutto il paesaggio, incluso il territorio non assoggettato al regime dei vincoli paesaggistici, costituisce comunque oggetto di tutela ai sensi della Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta a Firenze del 20 ottobre 2000 e ratificata dall’Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14. La Convezione prevede infatti, all’articolo 1, lett. a), che il termine «paesaggio» “designa una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Oggetto della protezione assicurata dalla Convenzione sono, quindi, tutti i paesaggi, e non solo i beni soggetti a vincolo paesaggistico.
Con riferimento ai paesaggi, così definiti, la Convenzione prevede, all’articolo 5, che “Ogni Parte si impegna a:
a) riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità;
b) stabilire e attuare politiche paesaggistiche volte alla salvaguardia, alla gestione e alla pianificazione dei paesaggi, tramite l’adozione delle misure specifiche di cui al seguente articolo 6;
c) avviare procedure di partecipazione del pubblico, delle autorità locali e regionali e degli altri soggetti coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche menzionate al precedente capoverso b);
d) integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio.”.
In forza del successivo articolo 6, inoltre, l’Italia si è impegnata all’adozione di misure specifiche, tra l’altro, in tema di “Identificazione e valutazione”, da attuare “Mobilitando i soggetti interessati conformemente all’articolo 5.c, e ai fini di una migliore conoscenza dei propri paesaggi, ogni Parte si impegna a:
a) i identificare i propri paesaggi, sull’insieme del proprio territorio;
ii analizzarne le caratteristiche, nonché le dinamiche e le pressioni che li modificano;
iii seguirne le trasformazioni;
b) valutare i paesaggi identificati, tenendo conto dei valori specifici che sono loro attributi dai soggetti e dalle popolazioni interessate; (…)”.
Le misure richieste dalla Convenzione prevedono, inoltre, la fissazione di appositi obiettivi di qualità paesaggistica e l’attivazione degli “strumenti di intervento volti alla salvaguardia, alla gestione e/o alla pianificazione dei paesaggi”.

L’adempimento degli impegni assunti mediante la sottoscrizione della Convenzione richiede che tutto il territorio sia oggetto di pianificazione e di specifica considerazione dei relativi valori paesaggistici, anche per le parti che non siano oggetto di tutela quali beni paesaggistici. Nel sistema ordinamentale, ciò si traduce nei precetti contenuti all’articolo 135 del Codice, il cui testo è stato integralmente riscritto dal decreto legislativo n. 63 del 2008, a seguito del recepimento della Convenzione europea del paesaggio.
In particolare, il comma 1 del predetto articolo 135 stabilisce che “Lo Stato e le regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono. A tale fine le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, entrambi di seguito denominati: "piani paesaggistici". L’elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143.”.
Il medesimo articolo 135 disciplina, poi, la funzione e i contenuti del piano paesaggistico.
Ne deriva che, anche con riferimento al paesaggio non vincolato, le Regioni sono tenute alla pianificazione paesaggistica.
In questa prospettiva, appare confliggente con le disposizioni dell’articolo 135 del Codice, che danno attuazione alla Convenzione europea sul paesaggio, prevedere che interventi di impatto assai rilevante sul territorio, quali quelli previsti dall’articolo 6 della legge n. 23 del 2021, avvengano sulla base di mere previsioni di legge, necessariamente avulse dalla considerazione dei singoli contesti, invece di essere pianificati specificamente nell’ambito dello strumento apposito previsto dalla medesima disposizione nazionale, tenendo conto dei valori paesaggistici specificamente riferibili a ciascun ambito territoriale.
La disposizione censurata, dettando una disciplina generale e astratta, per di più non temporanea, ma a regime, è destinata a incidere in modo indiscriminato sui diversi contesti, prescindendo dai profili di pregio agricolo, ecologico e paesaggistico dei singoli ambiti, dalle concrete esigenze da soddisfare (si applica, infatti, a tutti gli edifici destinati o anche soltanto da destinare ad attività agrituristiche), dalle dimensioni di partenza dell’edificio, dall’eventuale effetto cumulativo rispetto ad altri fattori che abbiano compromesso il contesto agricolo, e via dicendo. Per questa via, tale disciplina risulta anche manifestamente arbitraria e irragionevole.
Per le ragioni illustrate, emerge la violazione degli artt. 3, 117, primo comma, e 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto ai quali costituiscono norme interposte la legge n. 14 del 2006, di recepimento della Convenzione europea del paesaggio, nonché gli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

I profili di illegittimità costituzionale illustrati trovano conferma nella giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha avuto modo di affermare l’illegittimità costituzionale della reiterazione delle discipline derogatorie alla pianificazione urbanistica comunale – in particolare, quelle dei c.d. piani casa regionali – in considerazione del vulnus che la stabilizzazione di tali deroghe arreca alla tutela paesaggistica, la quale deve trovare attuazione attraverso la co-pianificazione con lo Stato, prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e alla quale le Regioni, tra le quali la Lombardia, si sono anche specificamente impegnate (cfr. Corte cost. n. 219 del 2021 e n. 24 del 2022).

Tale vulnus è ancora maggiore a fronte di una previsione, quale quella oggetto di contestazione, che, a differenza del c.d. piano casa, deroga alla pianificazione urbanistica senza trovare alcun fondamento in una norma statale di principio e che, inoltre, non è destinata a operare per un periodo limitato (e poi eventualmente prorogato), ma è addirittura introdotta a regime.
In una tale fattispecie, trovano applicazione, a fortiori, le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale, la quale ha avuto modo di affermare – per di più nei confronti della Regione Sardegna, dotata di potestà legislativa esclusiva in materia di urbanistica ed edilizia – che “La previsione impugnata, nel sancire per un tempo apprezzabile un’ulteriore proroga di disposizioni che derogano alla pianificazione urbanistica, consente reiterati e rilevanti incrementi volumetrici del patrimonio edilizio esistente, isolatamente considerati e svincolati da una organica disciplina del governo del territorio, che lo stesso legislatore regionale individua come la sede più appropriata per la regolamentazione di interventi di consistente impatto, nel rispetto dei limiti posti dallo statuto di autonomia alla potestà legislativa primaria.
La legge regionale, consentendo interventi parcellizzati, svincolati da una coerente e stabile cornice normativa di riferimento, trascura l’interesse all’ordinato sviluppo edilizio, proprio della pianificazione urbanistica, e così danneggia «il territorio in tutte le sue connesse componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale» (sentenza n. 219 del 2021, punto 4.2. del Considerato in diritto)».
D’altro canto, tale proroga, disposta in pendenza del procedimento, condiviso con lo Stato, di adeguamento del piano paesaggistico relativo alle aree costiere e di elaborazione di quello relativo alle aree interne, peraltro in corso da lungo tempo, finisce per compromettere la stessa pianificazione paesaggistica, deputata a indicare le linee fondamentali della tutela del paesaggio.
La disciplina impugnata contrasta dunque con la normativa codicistica posta a tutela del paesaggio, che costituisce limite anche alla competenza legislativa primaria della Regione autonoma Sardegna nella materia dell’urbanistica e dell’edilizia” (Corte cost., n. 24 del 2022).
Anche la disciplina di cui si discorre prevede la possibilità di realizzare incrementi volumetrici nelle aree agricole, le quali frequentemente presentano rilevanti profili di interesse paesaggistico. E ciò in modo indiscriminato, al di fuori di un disegno ordinato ex ante, imponendo così il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche sulla base della valutazione degli interventi caso per caso, con evidente abbassamento dello standard di tutela del paesaggio normativamente prescritto.

Sotto altro profilo, la disposizione censurata risulta illegittima anche in quanto realizza una indebita compressione della potestà dei Comuni di pianificare il proprio territorio, ponendosi conseguentemente in contrasto con il combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali dei Comuni, e degli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., in riferimento al principio di sussidiarietà verticale.
Il legislatore statale, nell’esercizio della competenza ad esso esclusivamente attribuita dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., ha individuato, “[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione”, quali funzioni fondamentali dei Comuni “la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale, nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale” (art. 14, comma 27, lettera d, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122).
Come ricordato dalla Corte costituzionale, “Con tale previsione è stato legislativamente riconosciuto un orientamento costante della giurisprudenza costituzionale, secondo cui quella attinente alla pianificazione urbanistica rappresenta una funzione che non può essere oltre misura compressa dal legislatore regionale, perché «il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere» (sentenza n. 378 del 2000) e la suddetta competenza regionale «non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni» (sentenza n. 83 del 1997)” (Corte cost., n. 202 del 2021).
Nella medesima pronuncia ora citata, la Corte, richiamando ancora la propria giurisprudenza, ha affermato che “laddove si assuma lesa la potestà pianificatoria comunale, lo scrutinio di legittimità costituzionale si concentrerà «dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti», così da verificare se la sottrazione di potere ai Comuni costituisca effettivamente «il minimo mezzo utile per perseguire gli scopi del legislatore regionale» (sentenza n. 179 del 2019). Tale giudizio di proporzionalità, mirante a verificare l’«esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 286 del 1997), consente quindi di appurare «se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.» (sentenza n. 119 del 2020)” (così ancora Corte cost., n. 202 del 2021, cit.).
Attenendosi ai criteri indicati dalla Corte, deve rilevarsi che la disposizione regionale censurata persegue lo scopo, di per sé non censurabile, di favorire l’attività agrituristica. Le modalità con cui le premialità volumetriche sono state previste dalla disciplina in esame, e la loro stessa entità, determinano tuttavia una compressione della funzione fondamentale dei Comuni in materia di pianificazione urbanistica che si spinge “oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità” (sentenza n. 119 del 2020).
Occorre, infatti, rilevare che la previsione dell’ultimo periodo del comma 3 dell’articolo 154 della legge regionale n. 31 del 2008, come sostituita dall’articolo 6 della legge regionale n. 23 del 2021, consente incrementi volumetrici fino al dieci per cento per gli immobili già destinati o anche soltanto da destinare ad attività agrituristica. Tale disposizione si combina con le ulteriori previsioni contenute nel medesimo articolo 154 della legge regionale n. 31 del 2008, il quale consente l’utilizzazione “per attività agrituristiche di tutti gli edifici in possesso del requisito di ruralità rilevante ai fini fiscali, già esistenti da almeno tre anni, a condizione che la loro destinazione all’attività agrituristica non comprometta l’esercizio dell’attività agricola” (comma 1) e stabilisce, inoltre, che tali edifici rurali “sono compatibili con ogni destinazione d’uso prevista dagli strumenti urbanistici comunali e sovracomunali”.
Dal quadro così ricostruito si evince che le premialità volumetriche, in quanto riferite agli edifici destinati o da destinare ad attività agrituristiche, sono consentite in modo indiscriminato nelle zone agricole, le quali presentano di frequente profili di pregio paesaggistico e sono, inoltre, soggette a una particolare disciplina urbanistica, essendo previsti standard di densità edilizia particolarmente restrittivi (cfr. articolo 7, n. 3, del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 e articolo 59 della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005), a tutela della destinazione agricola di tali aree e delle ulteriori importanti funzioni – ecosistemiche, paesaggistiche, di ordinato assetto del territorio, e altre ancora – connesse al mantenimento di una cintura verde intorno all’abitato (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 830; Id., 16 novembre 2011, n. 6049).
Tali premialità presentano quindi potenzialmente un rilevante impatto sul paesaggio agrario, anche alla luce delle ulteriori previsioni sopra richiamate, volte a incentivare la destinazione degli edifici rurali ad attività agrituristiche.
A ciò deve aggiungersi che le premialità volumetriche non sono modulate in alcun modo in base alle caratteristiche dei luoghi, ma sono consentite in modo indiscriminato in tutte le aree agricole, senza eccettuare gli ambiti sottoposti a tutela paesaggistica o quelli qualificati come zone agricole strategiche (ai sensi dell’articolo 15, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005).
Infine, la misura introdotta con la disposizione censurata non ha carattere transitorio, ma vige a regime.
Tutti tali elementi inducono a ritenere che la previsione di tali premialità volumetriche, non modulabili in alcun modo da parte dei Comuni, comprima in modo indebito la potestà riservata a tali Enti in ordine alla pianificazione del proprio territorio, impedendo ai medesimi Comuni di assicurare prevalenza, in determinati contesti, a interessi costituzionali anche primari – quale quello alla tutela del paesaggio agrario – rispetto all’interesse economico privato.
Al riguardo, occorre infatti ricordare che, secondo quanto da tempo chiarito dal Giudice amministrativo, “l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli - non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi –, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico – sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta - per autorappresentazione ed autodeterminazione - dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora , attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.” (Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710).
Tenuto conto di tali principi, i quali delineano la latitudine della potestà che i Comuni devono poter esercitare in rapporto al proprio territorio, risulta predicabile, anche con riferimento alla disposizione censurata, quanto già rilevato dalla Corte costituzionale rispetto a un’altra previsione legislativa regionale della Lombardia, dovendosi riscontrare come “la disposizione in esame non faccia residuare in capo ai Comuni alcun reale spazio di decisione, con l’effetto di farli illegittimamente scadere a meri esecutori di una scelta pianificatoria regionale” (Corte cost., n. 202 del 2021).
Per le ragioni sin qui esposte, emerge, pertanto, la violazione combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali dei Comuni, e degli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., in riferimento al principio di sussidiarietà verticale.

Deve aggiungersi che non assume alcun rilievo, al fine di elidere i profili di illegittimità costituzionale sopra illustrati, la circostanza che il Governo non abbia proposto impugnativa avverso l’articolo 1, comma 1, lett. d), della legge regionale 18 giugno 2019, n. 11 che aveva, fra le altre cose, sostituito l’articolo 154 della legge n. 31 del 2008, il cui comma 3, anche prima della modifica portata dall’articolo 6 della legge in oggetto, già prevedeva i predetti ampliamenti del dieci per cento, nei diversi termini sopra illustrati.
La Corte costituzionale ha infatti da tempo chiarito che “nei giudizi in via principale non si applica l’istituto dell’acquiescenza, atteso che la norma impugnata, anche se riproduttiva, in tutto o in parte, di una norma anteriore non impugnata, ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere” (cfr. sentenza Corte cost. n. 56 del 2020, che richiama le precedenti sentenze n. 41 del 2017, n. 231 e n. 39 del 2016).

Per i motivi suesposti, si ritiene di sollevare la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale della legge in esame relativamente all'articolo 6, comma 1, lettera a) che modifica l'articolo 154, della legge regionale 5 dicembre 2008, n. 31 del 2008, che disciplina, nell’ambito del Titolo X “Multifunzionalità dell’azienda agricola e diversificazione in agricoltura”, i locali da destinare ad attività agrituristiche.

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