Dettaglio Legge Regionale

Prima legge di revisione normativa ordinamentale 2021. (25-5-2021)
Lombardia
Legge n.8 del 25-5-2021
n.21 del 28-5-2021
Politiche ordinamentali e statuti
22-7-2021 / Impugnata


Con la presente legge regionale, la Regione Lombardia intende attuare la prima legge di revisione normativa ordinamentale 2021. In particolare, la legge regionale in esame è redatta in virtù della previsione di cui alla l.r. 8 luglio 2014, n. 19 recante “Disposizioni per la razionalizzazione di interventi regionali negli ambiti istituzionale, economico, sanitario e territoriale” come modificata dalla l.r. 9/2019, che, all’articolo 1, comma 3, prevede che il Presidente della Giunta regionale presenti al Consiglio regionale, due volte l’anno, un progetto di legge di revisione normativa ordinamentale. La legge contiene, per gli ambiti istituzionale, economico e territoriale circoscritte e limitate modifiche, puntuali integrazioni o specifiche sostituzioni di disposizioni legislative.
In particolare vengono censurate le seguenti disposizioni:

1) L’articolo 5, (modifica all’articolo 23 della l.r. n.32 del 2008), concernente “Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana”, aggiunge al relativo comma 4, dopo l’espressione “caschi di protezione”, le seguenti parole: “guanti tattici imbottiti antitaglio, dissuasori di stordimento a contatto, pistole al peperoncino, termoscanner portatili, mefisti, mascherine, previa adeguata formazione”.
La disciplina dell’armamento e degli altri strumenti operativi in dotazione alla polizia locale è recata dagli articoli 5 e 6 della legge 7 marzo 1986 n. 65.
Attraverso tali disposizioni il legislatore statale ha operato una summa divisio tra “armamento” vero e proprio ed altri “mezzi e strumenti operativi” di cui la polizia locale può essere provvista.
In particolare - compatibilmente con l’art. 117, comma 2, lettera d) della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva a legiferare in materia di armi – il citato art. 5 prevede, al comma 5, che gli appartenenti ai Corpi e Servizi di Polizia locale sono legittimati a portare, previo conseguimento della qualifica di agente di p.s., le armi ricevute in dotazione in relazione al tipo di servizio da espletare, senza bisogno di munirsi della licenza richiesta ai privati, nel territorio di appartenenza e negli altri casi di missioni nella circoscrizione di altri enti locali, specificamente individuati all’art. 4.
La disposizione de qua, inoltre, fa rinvio ad un apposito regolamento del Ministero dell’interno - sentita l’ANCI - per la disciplina, tra l’altro, della tipologia, del numero di armi in dotazione a tale personale e del relativo accesso ai poligoni di tiro per l’addestramento al loro uso (D.M. 4 marzo 1987, n. 145 “Norme concernenti l'armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza”).
Il successivo articolo 6 rimette, invece, alle regioni la possibilità di dettare normazione sul versante degli altri strumenti operativi, diversi da quelli la cui destinazione naturale sia l’offesa alla persona (come, ad esempio, gli strumenti di autotutela, quali caschi, guanti, etc.).
Nello specifico, tale disposizione, dopo aver chiarito - al comma 1 - che la potestà delle regioni in materia di polizia locale deve essere esercitata nel rispetto delle norme e dei principi stabiliti dalla menzionata legge n. 65 del 1986, precisa - al comma 2 - che le regioni stesse provvedono, con legge, a disciplinare, tra l’altro, “le caratteristiche dei mezzi e degli strumenti operativi” in dotazione ai Corpi o ai servizi, fatto salvo quanto stabilito dal citato art. 5 della stessa legge.
Tale riparto di competenze trova conferma nella sentenza n. 167 del 2010, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 9/2009, che identificava una serie di servizi in relazione ai quali gli agenti di polizia locale avrebbero dovuto essere muniti di armi. In proposito, la Consulta ha evidenziato che “emerge, con chiarezza, quindi, che la particolare tipologia di servizi ai quali gli agenti ed ufficiali di polizia locale sono adibiti costituisce uno dei presupposti giustificativi dell’attribuzione, da parte della normativa statale, della possibilità per i medesimi di portare le armi. Pertanto, la norma regionale, enumerando esplicitamente ed autonomamente taluni servizi in relazione ai quali gli agenti di polizia locale devono portare le armi, interviene a disciplinare casi e modi di uso delle armi, invadendo la competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione”.
Sulla scorta di quanto evidenziato, è possibile affermare che alcune delle previsioni introdotte dalla novella legislativa in esame sembrano “sconfinare” nel perimetro di materia riservato alla potestà legislativa esclusiva dello Stato dal citato art. 117, comma 2, lettera d) della Costituzione.
Si fa riferimento, innanzitutto, alla possibilità, prevista dalla legge regionale de qua, di dotare la polizia locale di “dissuasori di stordimento a contatto”.
Tale espressione sembra far riferimento a dispositivi rientranti nella categoria delle “armi comuni ad impulso elettrico”, di cui all’art. 19 del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132.
In giurisprudenza è stato chiarito come lo storditore elettrico debba a tutti gli effetti essere considerato uno “arma comune”, in quanto strumento naturalmente destinato ad offendere l’eventuale aggressore (cfr. sul punto, Cass. Pen., Sez. I, 9 giugno 2004, n. 25912 e Cass. Pen., Sez. II, 21 novembre 2016, n. 49325).
Pertanto, alla luce delle considerazioni esposte, l’attribuzione di tale tipologia di apparati alla polizia locale non può che risultare preclusa al legislatore regionale, a meno di sconfinare nella citata riserva di legge statale in materia di armi prevista dall’art. 117, comma 2, lettera d).
Inoltre, il citato art. 19 del D.L. n. 113/2018 ha previsto la possibilità di avviare la sperimentazione di armi comuni ad impulso elettrico nell’ambito dei Corpi e Servizi di polizia locale dei Comuni capoluogo di provincia e per quelli con popolazione superiore a centomila abitanti.
A tale sperimentazione potrà essere dato corso una volta approvate, da parte della Conferenza Unificata, le linee generali in materia di formazione del personale e tutela della salute, di cui al citato art. 19.
In un secondo momento, con l’adozione del decreto ministeriale previsto dal comma 1- bis del medesimo art. 19, la dotazione sperimentale delle armi in parola sarà, altresì, consentita alle polizie locali di comuni con un numero di abitanti inferiore ai centomila.

Ciò premesso, si ribadisce, che l’ordinamento giuridico, con riferimento agli strumenti di dissuasione mediante stordimento, individua due categorie fondamentali di strumenti:
1) Le armi ad impulso elettrico, di cui all’articolo 19 del decreto-legge n.113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n.132 del 2018, che consente l’utilizzo sperimentale alle polizie locali, nel rispetto della procedura disciplinata dal medesimo articolo;
2) Gli storditori elettrici e gli altri apparecchi in grado di generare una elettrocuzione, di cui il Legislatore, con il decreto legislativo n.204 del 2010, ha proibito il porto (art.4, comma 1, legge n.110/1975, e art. 49, R.D. n.635/1940).

Anche qualora i “dissuasori di stordimento a contatto” non fossero qualificabili come arma ad impulso elettrico, giacchè inidonei al lancio di dardi o freccette, non appaiono annoverabili nella categoria degli “strumenti di tutela”, ma piuttosto come armi proprie, perché la loro destinazione primaria, ancorchè a scopo difensivo, non potrebbe che essere l’offesa alla persona, atteso che il loro effetto è quello di porre una persona, con diverso gradiente di intensità, in stato di momentanea incapacità.

La disposizione regionale, pertanto, oltre a porsi in contrasto normativa statale sopracitata, viola l’articolo 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di armi.

Inoltre la legge regionale in oggetto contempla talune altre disposizioni che appaiono costituzionalmente illegittime, in quanto contrastanti con gli standard di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema posti dal legislatore statale nell'esercizio della competenza esclusiva ex art. 117, comma 2, lett. s), Cost., avuto particolare riguardo alla vigente normativa in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio dettata dalla legge quadro 11 febbraio 19925 n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per. Il prelievo venatorio), ritenuta dalla Corte Costituzionale disciplina contenente il nucleo minimo di salvaguardia, il cui rispetto deve essere assicurato sull'intero territorio nazionale (Corte Cost. n. 21/2021).
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha affermato che «spetta allo Stato, nell'esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia di tutela dell'ambiente, e dell'ecosistema, prevista dall'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., stabilire standard minimi e uniformi di tutela della fauna, ponendo regole che possono essere modificate dalle Regioni, nell'esercizio della loro potestà legislativa in materia di caccia, esclusivamente nella direzione dell'innalzamento del livello di tutela» (sentenze n. 303 del 2103, n. 278, n. 116 e n. 106 del 2012).

1) L’articolo 13, (modifica all’articolo 22 della l.r. n.26 del 1993), apporta la seguente modifica: a) al comma 7 dopo le parole “sul posto di caccia” sono aggiunte le seguenti: “dopo gli abbattimenti o l'avvenuto recupero".
La norma, nella sua attuale formulazione, si pone in contrasto con l'art. 12, comma 12-bis, della legge. N. 157 del 1992, ai sensi del quale: "La fauna selvatica stanziale e migratoria abbattuta deve essere annotata sul tesserino venatorio di cui al comma 12 subito dopo l'abbattimento".
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 291/2019, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 15, comma 1, lettera j), della l.r. Lombardia 4 dicembre 2018, n. 17, nella parte in cui ha sostituito le parole "dopo gli abbattimenti accertati" con le parole "dopo gli abbattimenti e l'avvenuto recupero".
Nell'ambito del dianzi richiamato pronunciamento, il giudice delle leggi nell'attribuire al tesserino venatorio funzione abilitativa e di controllo per la verifica della selvaggina cacciata e il rispetto del regime della caccia controllata (sentenza n. 90 del 2013), ha, altresì, posto in rilievo che attraverso le annotazioni presenti sul tesserino "sono acquisiti gli elementi di conoscenza della consistenza numerica della fauna selvatica, necessari a predisporre le misure di salvaguardia, in special modo quelle riguardanti le specie più vulnerabili".
L'attendibilità dei dati raccolti risulta, inoltre, maggiormente garantita nel momento in cui siffatto adempimento viene effettuato in maniera tempestiva da ciò derivando la necessità che l'annotazione sul tesserino venatorio debba essere effettuata subito dopo l'abbattimento, sia per la fauna selvatica stanziale che per quella migratoria.
Al riguardo occorre evidenziare che la richiamata previsione di cui all'art. 12, comma 12-bis, della legge n. 157/1992, si pone nel solco della procedura d'infrazione allora avviata nei confronti dell'Italia (caso EU Pilot 6955/14/EN VI) in merito all'attività di monitoraggio del prelievo venatorio, in relazione al quale era stata riscontrata l'esistenza di una variegata legislazione regionale, che consentiva di differire, con riferimento alle sole specie migratorie, l'annotazione degli abbattimenti al termine della giornata di caccia.
Secondo la Commissione europea, l'assenza, dunque, di una regolamentazione omogenea generava difficoltà nell'espletamento dei controlli da parte delle autorità competenti e il tempo trascorso tra l'abbattimento e l'annotazione rendeva inattendibili i dati raccolti.
Pertanto, l'aggiunta del comma 12-bis all'art. 12 della legge n. 157 del 1992 si è resa necessaria per la chiusura della ricordata procedura e per garantire una raccolta più puntuale delle informazioni, derivante dalla contestualità dell'annotazione, in funzione dell'efficace programmazione del prelievo faunistico.
La finalità, quindi, di tutela delle specie sottesa all'art. 12, comma 12-bis, della legge n. 157 del 1992 motiva l'inclusione della norma nell'ambito delle prescrizioni statali costituenti soglie minime di protezione ambientale (sentenza n. 249 del 2019), non derogabili neppure nell'esercizio della competenza regionale in materia di caccia, salva la possibilità di prescrivere livelli di tutela ambientale più elevati di quelli previsti dallo Stato (sentenze n. 174 e n. 74 del 2017, n. 278 del 2012, n. 104 del 2008 e n. 378 del 2007).
Nella prospettiva di tutela della sopravvivenza della fauna selvatica, l'obbligo di annotazione non può che investire l'abbattimento dell'esemplare, inteso come evento effettivamente realizzatosi, a nulla rilevando la materiale apprensione del capo.
Pertanto, la norma censurata, che subordina le annotazioni sul tesserino venatorio al preventivo recupero dell'animale, contrasta con la ratio sottesa alla disciplina normativa statale e abbassa la soglia di protezione da essa stabilita.

2) L’articolo 17 (modifiche all’articolo 26 della l.r. n.26 del 1993) dispone quanto segue:
"1. All'articolo 26 della legge regionale 16 agosto 1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell'equilibrio ambientale e disciplina dell'attività venatoria), sono apportate le seguenti modifiche:
a) al comma i dopo le parole 'muniti di anellini inamovibili' sono inserite le seguenti: 'in materiale metallico, plastico o altro materiale idoneo';
b) i commi 5 bis e 5 quater sono abrogati".

A) Per quel che concerne, in particolare, la modifica di cui all'anzidetta lettera a) del comma 1, dell'articolo 26 della legge regionale 16 agosto 1993, n. 26, attraverso di essa viene consentito l'impiego di una fascetta inamovibile per l'identificazione dei richiami vivi, anche al posto dell'unico contrassegno ammesso dalla normativa statale, ossia l'anello inamovibile numerato, con ciò contrastando con l'art. 5, comma 7, della legge n. 157/1992.
Va precisato che l'anello inamovibile di dimensioni correlate al tarso di ogni specie di volatile costituisce tecnicamente l'unica forma di contrassegno che consente di distinguere legittimi richiami vivi di allevamento da marcature apposte in maniera fraudolenta ad esemplari catturati illecitamente in natura; l'anello può essere apposto solo nei primi giorni di vita degli esemplari, rimanendo inamovibile alla crescita dell'animale nei giorni successivi; contrariamente, una fascetta potrebbe essere apposta ad esemplari adulti di illecita provenienza, ragion per cui le disposizioni statali non contemplano tale tipologia di contrassegno.
La tassatività dell'utilizzo dell'anello identificativo inamovibile e la esclusività in capo allo Stato nella determinazione degli "standard minimi e uniformi" in materia di tutela della fauna è stata ribadita anche dalla sentenza n. 441 depositata il 22/12/2006, con la quale la Corte Costituzionale ha precisato che l'adozione di deroghe regionali contrasta con la finalità di tutela della fauna selvatica e, dunque, con la necessità di garantire un adeguato sistema di controlli, in ossequio a quanto previsto dall'art. 5 della legge n. 157/1992.
Nel caso di specie, la norma prevede, in maniera palesemente illegittima, la possibilità per la Regione di determinare la sussistenza di una non meglio identificata idoneità dei materiali senza tuttavia precisare quale sia la procedura e quali siano i parametri e i criteri che consentano di pervenire a tale conclusione.
Si ritiene sul punto che la nuova normativa regionale della Lombardia non offre garanzie riguardo alla inamovibilità e, di conseguenza, alla verifica della liceità della nascita del soggetto in ambiente controllato, in quanto la proposta utilizzazione di "anelli in materiale plastico o altro materiale idoneo", non garantirebbe la certezza che il soggetto detenuto ai fini di richiamo sia realmente frutto di nascita in cattività, in quanto l'anellino potrebbe essere "calzato" anche da soggetti adulti di provenienza non accertata.
Il materiale plastico, contrariamente al metallo, potrebbe, difatti, essere allargato e modificato facilmente, consentendo di applicate al tarso di un soggetto di cattura anellini deformati e utilizzabili in modo illegale. Inoltre, la plastica non offre le garanzie del metallo in quanto è soggetta a deformarsi nel tempo, consentendo anche la modifica della stampigliatura dei dati dell'allevatore, dell'anno di nascita, del soggetto e numero progressivo.
Per tali ragioni gli anelli in metallo offrono maggiori garanzie di quelli in plastica, che non sono ammessi dai regolamenti internazionali e dalla Confederazione Ornitologica Mondiale per mostre e fiere ornitologiche.
Dal momento che, le associazioni ornitologiche hanno approvato e riconosciuto contrassegni metallici che vengono utilizzati da tutti gli allevatori autorizzati dalle Regioni italiane, ai sensi della legge n. 157/1992 e da vigenti leggi regionali, si ritiene che i medesimi anellini siano idonei e non sostituibili, con altri materiali che, non potrebbero garantire il riconoscimento dei soggetti nati in cattività.
B) In merito all’ abrogazione dei commi 5 bis e 5 quater dell'art. 26, L.R. 26/1993, detta previsione comporta la soppressione della banca dati dei richiami vivi.
Si ritiene necessario evidenziare che, nel dicembre del 2010, la Commissione Europea ebbe ad avviare la procedura EU PILOT 1611 /1 0/ENVI nei confronti dell'Italia per non corretta applicazione della Direttiva Uccelli 2009/147 CE in materia di cattura richiami vivi, seguita, nel 2014 dalla costituzione di messa in mora (20/02/2014) dello Stato italiano.
Proprio in risposta al suddetto caso EU Pilot 1611 /1 0/ENVI, fu costituita la banca dati dei richiami vivi, essendo in tal contesto emersa la necessità per le Regioni di dotarsi di siffatto strumento compendiante i dati dei richiami vivi detenuti dai cacciatori, al fine di soddisfare il requisito delle condizioni rigidamente controllate, previsto dall'articolo 9, comma 1, della Direttiva 2009/147/CE.
Nel merito, veniva contestata la violazione dell'art. 8, in combinato con l'allegato IV art. 8 della Direttiva Uccelli con riferimento alla caccia, la cattura o l'uccisione di uccelli nel quadro della medesima Direttiva che prescrive agli Stati membri di vietare il ricorso a qualsiasi mezzo, impianto o metodo di cattura o di uccisione in massa o non selettiva o che possa portare localmente all'estinzione di una specie, in particolare di quelli elencati all'allegato IV, lettera a). Tale violazione si configurava anche in ragione del fatto che le disposizioni oggetto della procedura furono adottate senza che fossero rispettate le condizioni previste dall' art. 9 (deroghe).
L'introduzione, dunque, del comma 5 bis, dell'art. 26, L.R. 26/1993, prevista dalla L.R. 3 aprile 2014, n 14, comportava la costituzione della banca dati regionale dei richiami vivi di cattura e allevamento appartenenti alle specie di cui all'articolo 4 della L. n. 157/1992, detenuti dai cacciatori "al fine di garantire le condizioni previste dall'articolo 9, comma 1, lettera c) della Direttiva 200911 47/CE".
Da ciò ne deriva che, attraverso l'abrogazione della suddetta banca dati, la Regione contravviene al formale impegno a suo tempo assunto al fine di ottenere l'archiviazione della citata procedura PILOT.


3) L’articolo 25, (Modifica all’articolo 48 della l.r. n.26 del 1993) dispone quanto segue:
"1. All'articolo 48 della legge regionale 16 agosto 1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell'equilibrio ambientale e disciplina dell'attività venatoria) è apportata la seguente modifica:
a) al comma 6 bis le parole “L'attività di vigilanza e controllo è svolta” sono sostituite dalle seguenti: “L'attività di vigilanza e controllo sugli anellini inamovibili da utilizzare per gli uccelli da richiamo di cui ai commi 1, 1bis e 3 dell'articolo 26 è svolta verificando unicamente la presenza dell'anellino sull'esemplare e deve essere effettuata".
La modifica si pone in evidente contrasto con la normativa nazionale di settore, stabilendo una oggettiva limitazione alla possibilità, per il personale di vigilanza, di espletare compiutamente la propria attività di pubblico interesse finalizzata al controllo sul rispetto delle norme vigenti nello Stato.

Occorre rilevare, in particolare, che, ai sensi dell'art. 5, comma 7 della Legge n. 157/1992". E’ vietato l'uso di richiami che non siano identificabili mediante anello inamovibile, numerato secondo le norme regionali che disciplinano anche la procedura in materia". L'eventuale violazione a siffatto precetto normativo, trova una precisa collocazione sanzionatoria di natura penale, nell'art. 30, lett. h) della medesima legge.

Si evidenzia che la giurisprudenza di legittimità risulta essersi già più volte espressa sull'illiceità di comportamenti idonei a rendere non identificabili i richiami vivi.
In particolare, con la sentenza numero 7949/2013 del 19/02/2013 (Udienza del 20/09/2012), la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione ha difatti riconosciuto il reato di uso di mezzi di caccia vietati, nel caso di richiami vivi non identificabili tramite anello inamovibile.
Con la successiva sentenza n. 33152 del 25/11/2020, la V Sezione penale della Corte di Cassazione ha, altresì, precisato che ricorrerebbe il reato di cui all'art. 468, comma 2, del Codice Penale qualora venisse posta in essere una contraffazione degli anelli identificativi dei richiami, laddove espressamente destinati alla funzione di pubblica attestazione (è questo il caso degli anelli inamovibili rilasciati dalla pubblica amministrazione competente per scongiurare l'uso fraudolento di richiami vivi provento di illecite catture in natura), senza nulla rilevare in merito al sequestro di richiami vivi con anelli danneggiati ad opera del personale di vigilanza operante.
Ciò posto, la modifica apportata dalla Regione, limitando la funzione dell'agente accertatore e costringendolo a verificare “unicamente la presenza dell'anellino" senza consentire in alcun modo di maneggiare l'animale, impedisce di verificare sia la sussistenza del requisito della inamovibilità dell'anello, sia la numerazione che sullo stesso deve, essere indicata.
Tali limiti comportano, dunque, la mancata sussistenza dell'ulteriore requisito della identificabilità, con conseguenti riflessi (in termini impeditivi) sull'espletamento dell'attività di vigilanza in uno degli ambiti che ha riscontrato il maggior numero dì irregolarità (cfr. caso EU Pilot 1611 /1 0/ENVI).
In ragione di ciò, il divieto di verifica sugli anellini inamovibili è da ritenersi in contrasto con i compiti di vigilanza venatoria stabiliti dagli artt. 27 e 28 della Legge n. 157/1992, in cui risultano ricompresi anche quelli sugli anelli inamovibili dei richiami vivi, riducendo i livelli minimi di tutela ambientale in materia.
Alla luce di quanto fin qui rappresentato e del quadro normativo eurounitario e statale in cui si colloca la tutela delle specie oggetto della disposizione censurata, si rileva il contrasto della norma regionale con il secondo comma, lettera s), dell'art. 117 Cost., poiché tendente a ridurre in peius il livello di tutela della fauna selvatica stabilito dalla legislazione nazionale, invadendo illegittimamente la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema.

Per i motivi esposti, si ritiene di proporre l’impugnativa dinanzi alla Corte Costituzionale degli articoli 5, nella parte in cui prevede i “dissuasori di stordimento a contatto”, 13, 17 e 25, della Legge della Regione Lombardia n.8 del 2021, per contrasto con la citata normativa nazionale, in violazione dell'articolo 117, secondo comma, lettere d) e s), Cost., che riservano allo Stato la competenza esclusiva in materia di armi e di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema.

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