Dettaglio Legge Regionale

Legge di semplificazione 2018. (11-1-2019)
Sardegna
Legge n.1 del 11-1-2019
n.4 del 17-1-2019
Politiche economiche e finanziarie
7-3-2019 / Impugnata
LA LEGGE REGIONE SARDEGNA N. 1 PUBBLICATA SUL B.U.R N. 4 DEL 17 GENNAIO 2018 "LEGGE di SEMPLIFICAZIONE 2018" presenta profili illegittimi per gli aspetti di seguito evidenziati:

l'articolo 4. comma 1, lettera a) e l'articolo 5, comma 1, lettera a), sono norme illegittime in quanto contrastanti con gli standard di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema posti dal legislatore statale nell'esercizio della competenza esclusiva ex art. 117, comma 2, lett. s), Cost..
In particolare l'articolo 4, della legge in parola, sotto la rubrica "Modifiche alla legge regionale n. 20 dei 2014 (Parco di Gutturu Mannu), al comma 1, lettera a) reca specifica modifica all'articolo 3, comma 2, della legge regionale n. 20 del 2014, sostituendo la lettera c) che prevedeva tra gli organi dell'ente "il collegio dei revisori dei conti" al cui posto viene, con la novella introdotta, contemplato un "revisore dei conti".
Analoga modifica viene apportata dall'articolo 5, comma 1, lettera a) della legge regionale n. 1 del 2019 all'articolo 3, comma 2, lettera c) della legge regionale n. 21 del 2014 (Parco di Tepilora), ove in sostituzione del "collegio dei revisori dei conti" viene contemplato tra gli organi dell'ente un "revisore dei conti".
Dette previsioni normative si pongono in contrasto con l'articolo 24 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, che, sotto la rubrica "Organizzazione amministrativa del parco naturale ", ai commi 1 e 2 prevede espressamente che:
1. in relazione alla peculiarità di ciascuna area interessata, ciascun parco naturale regionale prevede, con apposito statuto, una differenziata forma organizzativa, indicando i criteri per la composizione del consiglio direttivo, la designazione del presidente e del direttore, i poteri del consiglio, del presidente e del direttore, la composizione e i poteri del collegio dei revisori dei conti e degli organi di consulenza tecnica e scientifica, le modalità di convocazione e di funzionamento degli organi statutari, la costituzione delle comunità del parco.
2. nel collegio dei revisori dei conti deve essere assicurata la presenza di un membro designato dal Ministro del tesoro (attualmente M EF).
Il suddetto articolo 24 della legge n. 394 del 1991, nel solco del disposto dell'articolo 9, comma 2 e comma 10 della medesima legge, contempla, pertanto, tra gli organi del parco regionale il collegio dei revisori dei conti, all'interno del quale deve essere ricompresa la presenza di un membro designato dal Ministro del tesoro (ora MEF).
Per quanto esposto le previsioni della legge regionale che si contestano, vanno in maniera palese ad incidere sull'assetto organizzativo interno dell'Ente parco come predeterminato dal parametro interposto statale costituito dalla anzidetta "Legge quadro sulle aree protette" n. 394 del 1991, andando ad operare, in assenza di specifica facoltà normativamente riconosciuta, una illegittima variazione novativa organica con conseguenti riflessi sotto il profilo della regolarità amministrativa dell'ente stesso.
Al riguardo si evidenzia che, come ripetutamente statuito dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 315 e n. 193 del 2010, n. 44, n. 269 e n. 325 del 2011, n. 14 del 2012, n. 212 del 2014 e n. 36 del 17 febbraio 2017, la disciplina delle aree protette rientra nella competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell'ambiente» ex art. 117, secondo comma, lettera s), ed è contenuta nella legge n. 394 del 1991 che detta i principi fondamentali della materia, ai quali la legislazione regionale è chiamata ad adeguarsi, assumendo anche i connotati di normativa interposta che deve considerarsi, (sentenze n. 44 del 2011 n. 315 e n. 20 del 2010), espressione, per l'appunto, dell'esercizio della competenza esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s) Cost. Le regioni, pertanto, in ambito di aree protette, possono soltanto determinare maggiori livelli dì tutela, ma non derogare alla legislazione statale.
In particolare, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito come "il territorio dei parchi siano essi nazionali o regionali ben (possa) essere oggetto di regolamentazione da parte della Regione, in materie riconducibili ai commi terzo e quarto dell'art. 117 Cost., purché in linea con il nucleo minimo di salvaguardia del patrimonio naturale, da ritenere vincolante per le Regioni" (Corte Cost, sentenze n. 232 del 2008, punto 5 del considerato in diritto e 44 del 2011 precedentemente citata).
Nell'ambito, quindi, delle materie di loro competenza le Regioni trovano un limite negli standard di tutela fissati a livello statale. Questi, tuttavia, non impediscono al legislatore regionale di adottare discipline normative che prescrivano livelli di tutela dell'ambiente più elevati (di recente, Corte Cost. sentenze n. 66 del 2018, n. 74 del 2017, n. 267 del 2016 e n. 149 del 2015), i quali «implicano logicamente il rispetto degli standard adeguati e uniformi fissati nelle leggi statali» (Corte Cost., sentenza n. 315 del 2010).
Come già sottolineato, la legge quadro n. 394 del 1991 è stata reiteratamente ricondotta dalla giurisprudenza costituzionale alla materia «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema» (da ultimo, sentenze n. 74 e n. 36 del 2017), da ciò derivandone, dunque, che le Regioni sono tenute ad adeguarsi ai principi fondamentali da essa dettati, pena l'invasione di un ambito materiale di esclusiva spettanza statale.
La stessa Corte Costituzionale ha altresì posto in evidenza come lo standard minimo uniforme di tutela nazionale si estrinsechi nella predisposizione da parte degli enti gestori delle aree protette «di strumenti organizzativi, programmatici e gestionali per la valutazione di rispondenza delle attività svolte nei parchi alle esigenze di protezione» dell'ambiente e dell'ecosistema (sentenza n. 171 del 2012; nello stesso senso, le sentenze n. 74 del 2017, n. 263 e n. 44 del 2011. n. 387 del 2008).
La più volte menzionata legge quadro n. 394 del 1991 non si limita, dunque, a dettare standard minimi uniformi atti a tutelare soltanto i parchi e le riserve naturali nazionali e regionali - istituiti ai sensi dell'art. 8 della legge quadro (rispettivamente, con decreto del Presidente della Repubblica e con decreto del Ministro dell'ambiente) - ma impone anche un nucleo minimo di tutela del patrimonio ambientale rappresentato dai parchi e dalle riserve naturali regionali, che vincola il legislatore regionale nell'ambito delle proprie competenze.
Anche in relazione alle aree protette regionali, invero, il legislatore statale ha predisposto un modello fondato sull'individuazione del loro soggetto gestore, ad opera della legge regionale istitutiva (art. 23), sull'adozione, «secondo criteri stabiliti con legge regionale in conformità ai principi di cui all'articolo 11, di regolamenti delle aree protette» (art 22, comma 1, lettera d, peraltro significativamente ed espressamente ricompreso tra i «princìpi fondamentali per la disciplina delle aree naturali protette regionali»), nonché su un modello organizzativo tramite il quale siano attivate le finalità del parco naturale regionale (art. 24).
Per altro verso, può senz'altro riconoscersi che il legislatore statale ha previsto, per le aree naturali protette regionali, un quadro normativo meno dettagliato di quello predisposto per le aree naturali protette nazionali, tale che le Regioni abbiano un qualche margine di discrezionalità tanto in relazione alla disciplina delle stesse aree protette regionali quanto sul contemperamento tra la protezione dì queste ultime e altri interessi meritevoli di tutela da parte del legislatore regionale.
Ciò non toglie che debba essere comunque garantita la conforme corrispondenza ai canoni previsionali inderogabili imposti dalla normativa nazionale, essendo manifestazione di quello standard minimo di tutela che il legislatore statale ha individuato nell'esercizio della propria competenza esclusiva in materia di «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema» e che, come dianzi già posto in rilievo, le Regioni possono accompagnare con un surplus di tutela, ma non, appunto, derogare in peius come nel caso dì specie, ove in aperto contrasto con la norma primaria statale, la complessa e delicata funzione di riscontro contabile sugli atti dell'Ente parco è stata di fatto trasferita da un organo a carattere collegiale individuato a garantire il rispetto del principio di buon andamento della Costituzione anche in relazione all'articolo 97 Cost. (il collegio dei revisori dei conti, al cui interno trova altresì collocazione specifico rappresentante dell'Amministrazione centrale finanziaria) ad un singolo soggetto.
Per i motivi dianzi esposti le norme indicate devono essere impugnate dinanzi alla Corte Costituzionale limitatamente all'articolo 4, comma 1, lettera a) e all'articolo 5, comma 1, lettera a), per violazione degli articoli 97 e 117, secondo comma. lett. s) Cost. con riferimento ai parametri interposti statali dianzi citati.

L’articolo 7, comma 2 stabilisce che l’Agenzia Forestas, nell’ambito dell’acquisizione dei terreni di cui al comma 1, al fine di garantire la continuità gestionale dei terreni e delle strutture, è autorizzata ad inquadrare, temporaneamente, nel proprio organico, il personale impegnato dagli affittuari fino alla data di risoluzione del contratto anche attraverso un percorso triennale di utilizzo, nell’ambito delle risorse disponibili nel proprio bilancio e nel rispetto delle vigenti facoltà assunzionali.
Al riguardo, si fa presente che la prevista possibilità di inquadrare il personale in parola, anche attraverso un non meglio precisato percorso triennale di utilizzo, in assenza di qualsiasi forma di valutazione, si configura quale un inquadramento riservato del personale stesso nei ruoli regionali; l’"inquadramento temporaneo" del personale interessato, in assenza di una procedura selettiva, integra gli estremi della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo determinato con la pubblica amministrazione regionale. La disposizione è in contrasto, pertanto, con il principio di accesso al pubblico impiego di cui all’art. 97 della Costituzione.
Si rileva, altresì, che le assunzioni a tempo determinato ai sensi dell’art. 36 del d.l.vo n. 165/2001 possono avvenire esclusivamente per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali e non rivestire carattere di ordinarietà. La norma in esame, pertanto, contrasta anche con l’art. 117, lett. l) della Costituzione, che riserva alla competenza esclusiva dello Stato l’ordinamento civile e, quindi i rapporti di diritto privato regolabili dal Codice civile (contratti collettivi).

L'art. 13 "Modifiche all'art. 7-bis della legge regionale n. 23 del 1985 (Tolleranze edilizie)", dispone la seguente previsione normativa: « 1. Dopo il comma 1 dell'art. 7-bis della legge regionale 11 ottobre 1985, n. 23 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, di risanamento urbanistico e di sanatoria di insediamenti ed opere abusive, di snellimento ed accelerazione delle procedure espropriative), è aggiunto il seguente:"1 bis. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche nei casi in cui le previsioni legislative o regolamentari, comprese le disposizioni in materia di distanze e di requisiti igienico-sanitari, individuano misure minime".
La richiamata disposizione di cui all'art. 7-bis, comma 1, prevede, tra l'altro, che “Sono considerate tolleranze edilizie, con conseguente inapplicabilità delle disposizioni in materia di parziale difformità, le violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure progettuali.”
Pertanto dall'interpretazione letterale dell'enunciato principio contenuto nell'art. 13, della legge regionale, in combinato disposto con le previsioni di cui all'art. 7-bis, co 1, della citata legge n. 23/1985, ne deriva una lesione delle prerogative dello Stato ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lettera l) Cost., nella misura in cui le "tolleranze edilizie", trovino applicazioni “anche nelle ipotesi di disposizioni in materia di distanze e di requisiti igienico-sanitari che individuano misure minime”.
Nella ricostruzione del quadro normativo è importante infatti considerare le previsioni contenute nell'art. 2-bis (Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati), del d.P.R. n. 380 del 2001, che così dispone: «Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali ad un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
Il richiamato decreto ministeriale n. 1444 del 1968 come posto in luce dalla Consulta è stato emesso ai sensi dell'art. 41 quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, recante «Legge Urbanistica» (introdotto dall'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), avente, per giurisprudenza consolidata, un'efficacia precettiva e inderogabile"(Corte Cost., sentenza n. 114 del 2012), nella parte relativa alle distanze.
L'art. 41 quinquies ha infatti previsto nei Comuni l'osservanza dei "limiti inderogabili" di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, disponendo che: «I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l'Interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici».
La Corte costituzionale nella sentenza n. 176 del 2016, facendo riferimento alla portata applicativa dell'art. 2-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha, tra l'altro, precisato che: «La legislazione regionale che interviene sulle distanze, interferendo con l'ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegua chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando l'operatività dei suoi precetti a "strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 232 del 2005). Diversamente, le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino, invece, da tali finalità, risultano invasive della materia "ordinamento civile", riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenza n. 134 del 2014)». Nella stessa pronuncia, la Corte ha ribadito, in materia di distanze fra costruzioni, il riparto di competenze tra Stato e Regione, precisando che: «In tema di disciplina delle distanze fra costruzioni, il "punto di equilibrio " tra gli ambiti di competenza, rispettivamente, "esclusiva", dello Stato (in ragione dell'attinenza di detta disciplina alla materia ordinamento civile") e, "concorrente", della Regione, nella materia "governo del territorio" (per il profilo della insistenza dei fabbricati su territori che possono avere, rispetto ad altri, specifiche caratteristiche, anche naturali o storiche) si rinviene nel principio estraibile dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 (che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile: sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011), per cui sono ammesse distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni piano volumetriche».
La stessa Corte nel dare un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 ha anche precisato che: "le deroghe alle distanze minime, devono essere inserite in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio" (ex plurimis Corte Cost. n. 114 del 2012; n. 232 del 2005)».
A tale riguardo, la Corte nell'esame di una censura sul mancato richiamo al rispetto delle norme di distanze fra edifici, integrative del codice civile e, in particolare, dell'art.9 del citato d.m. n. 1144 del 1968 ha chiarito che: «In tale ambito questa Corte ha in più occasioni precisato che le norme in materia di distanza tra edifici costituiscono principio inderogabile che integra la disciplina privatistica delle distanze. In particolare, data la connessione e le interferenze tra interessi privati e interessi pubblici in tema di distanze tra costruzioni, l'assetto costituzionale delle competenze in materia di governo del territorio interferisce con la competenza esclusiva dello Stato a fissare le distanze minime, sicché le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione speciale, potendo, nei limiti della ragionevolezza, fissare dei limiti maggiori. Le deroghe alle distanze minime, poi, devono essere inserite in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, poiché la loro legittimità è connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati (sentenza n. 232 del 2005)».
Pertanto, alla luce delle considerazioni giuridiche sopra esposte, la norma dell'art.13 dal punto di vista della legittimità costituzionale nell'estendere il campo di applicazione dell'art. 7-bis, della legge n. 23 del 1985 (Tolleranze edilizie) "anche nei casi in cui le previsioni legislative o regolamentari, comprese le disposizioni in materia di distanze e di requisiti igienico sanitari, individuano misure minime", viola le prerogative dello Stato in materia di "ordinamento civile", integrando una violazione dell'art. 117, comma secondo, lettera I) Cost. e pertanto deve essere oggetto di impugnativa ex art. 127 della Costituzione.


L'articolo 61 - Progressioni professionali - stabilisce che: “Al personale del comparto di contrattazione regionale che abbia maturato i requisiti per le progressioni professionali per l'anno 2018 e non sia transitato nel livello economico superiore, sono riconosciuti gli effetti giuridici della progressione con decorrenza dal 1° gennaio 2018. Tale decorrenza ha valore ai fini del calcolo della permanenza effettiva in servizio nel livello retributivo.”
La disposizione non precisa se trattasi di passaggi tra le aree, ovvero di passaggio economico all'interno dell'area. Nel primo caso dovrebbe essere garantita la procedura transitoria prevista dall'articolo 22 del d.lgs. 75 del 2017 o quella ordinaria prevista dall'articolo 54 del d.lgs. 165 del 2001; ove invece si trattasse di passaggio economico all'interno dell'area la disposizione confliggerebbe con gli orientamenti consolidati dell'Aran, del Dipartimento della Funzione Pubblica e della Corte dei Conti, che prevedono, come decorrenza, una data non anteriore a quella dell'approvazione della graduatoria o della presa delle funzioni.
La retrodatazione confligge con i principi di coordinamento della finanza pubblica e con la disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze della PA (ordinamento civile) di cui agli articoli 117, terzo comma, e 117, secondo comma, lett. I) della Costituzione, che riserva alla competenza esclusiva dello Stato l’ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolabili dal Codice civile (contratti collettivi)..

Peraltro, si fa presente che anche il riconoscimento, con legge regionale, degli effetti giuridici delle progressioni al personale di cui trattasi, senza che siano rispettate le disposizioni contenute nel titolo III (Contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale) del d.l.vo 165/2001, che indica le procedure da seguire in sede di contrattazione e l’obbligo del rispetto della normativa contrattuale, confligge con l’art. 117, lett. l) della Costituzione..
Si segnala, altresì, un contrasto con il principio di eguaglianza fra i cittadini di cui all’art. 3 della Costituzione in quanto per il personale delle altre regioni, nella stessa situazione lavorativa, troverebbe applicazione un diverso trattamento contrattuale.

La disciplina dettata dall’art. 53, rubricato “Durata delle attestazioni o certificazioni di malattie croniche”, appare generica e alquanto lacunosa, laddove non permette di comprendere né quali siano le certificazioni e le prestazioni nei confronti delle quali troverebbe applicazione la norma, né quali siano le modalità individuate per darle attuazione.
In merito all'art. 53 (Durata delle attestazioni o certificazioni di malattie croniche), comma 3, la norma dispone: «La Giunta regionale, su proposta dell'Assessore competente in materia di sanità, individua le malattie e le condizioni di salute di cui al comma 1, inserendole in un apposito elenco da pubblicarsi sul Bollettino ufficiale della Regione Autonoma della Sardegna (BURAS)».
Il dettato del disposto normativo richiama le previsioni del comma 1, secondo cui: «Le attestazioni o le certificazioni di malattie croniche o di condizioni di salute necessarie al fine di ottenere prestazioni sanitarie, socio-sanitarie o sociali nel territorio regionale producono effetti sino all'eventuale regressione della malattia o della condizione di salute ad un livello non più compatibile con l'ottenimento della prestazione».
La previsione normativa contenuta nel comma 3, del citato art. 53, interferisce nella materia di prerogativa statale, con riferimento ai "livelli essenziali delle prestazioni", nella misura in cui, in maniera molto generica - e senza fare alcun richiamo alle previsioni di cui al d.lgs n. 124 del 1998 recante "Ridefinizione del sistema di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie e del regime delle esenzioni, a norma dell'art. 59, comma 50, della legge 27-12-1997, n. 449, né tantomeno ai regolamenti attuativi di cui ai decreti ministeriali 28 maggio 1999 n. 329 e 18 maggio 2001, n. 279 - si pone l'obiettivo di individuare "le malattie e le condizioni di salute di cui al comma 1, inserendole in un apposito elenco da pubblicarsi sul bollettino ufficiale della Regione autonoma della Sardegna”.
A tale riguardo, la Corte costituzionale nella sentenza n. 338 del 2003 ha precisato che:« Il confine fra terapie ammesse e terapie non ammesse, sulla base delle acquisizioni scientifiche e sperimentali, è determinazione che investe direttamente e necessariamente i principi fondamentali della materia, collocandosi "all'incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell'arte medica; e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica" (sentenza n. 282 del 2002), diritti la cui tutela non può non darsi in condizioni di fondamentale eguaglianza su tutto il territorio nazionale».
La stessa Corte nella precitata sentenza ha posto in evidenza la potenzialità lesiva di alcuni interventi normativi regionali posti in essere, nell'esercizio di una competenza legislativa concorrente, precisando al riguardo che: «Interventi legislativi regionali, posti in essere nell'esercizio di una competenza legislativa concorrente, come quella di cui le Regioni godono in materia di tutela della salute (art 117, terzo comma Cost.), sono costituzionalmente illegittimi ove pretendano di incidere direttamente sul merito delle scelte terapeutiche in assenza- o in difformità da- determinazioni assunte a livello nazionale, e quindi introducendo una disciplina differenziata, su questo punto, per una singola Regione».
Riguardo poi ai commi 1 e 2 del medesimo art. 53 relativi alle modalità individuate per dare attuazione alla norma, dal dettato normativo non appare chiaro in che modo il sanitario curante, istituzionalmente deputato ad attestare lo stato di malattia dell’assistito e, quindi, ad approntare diagnosi e prognosi, dovrebbe procedere all’individuazione delle amministrazioni destinatarie della comunicazione in questione. Non risulta, inoltre, specificato quali siano le modalità attraverso le quali il medesimo sanitario dovrebbe provvedere alla comunicazione alle amministrazioni interessate.
Ciò premesso, si ritiene opportuno segnalare che il d.m. 23 novembre 2012, recante “Definizione del periodo minimo di validità dell’attestato di esenzione dalla partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie” (G.U. n. 33 dell’8 febbraio 2013) indica, all’allegato 1, il periodo minimo di validità dell'attestato di esenzione dalla partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie in relazione alle diverse malattie croniche e invalidanti e alla possibilità di miglioramento delle condizioni di salute dell’assistito, valutata in base alle evidenze scientifiche (cfr. art. 4, comma 4-bis, del decreto legge n. 5 del 2012, convertito nella legge n. 35 del 2012).
Tale indicazione, tuttavia, è finalizzata esclusivamente a determinare la durata minima dell’attestato di esenzione per patologia.
E’ facoltà delle singole Regioni fissare periodi di validità dell’attestato più lunghi di quelli indicati dal menzionato decreto (cfr. articolo 1, comma 2, d.m. 23 novembre 2012).
Tuttavia, in base alla normativa statale vigente, solo una volta decorso il periodo di validità dell’attestato, l’assistito viene sottoposto ad una nuova visita finalizzata al rilascio della certificazione per il rinnovo, da parte delle aziende sanitarie, dell’attestato di esenzione (cfr. art. 1, comma 3, d.m. 23 novembre 2012).
Viceversa, dalla lettera dell’articolo 53 della legge regionale in esame, sembra emergere il potere/dovere del medico curante di valutare, prima della suddetta scadenza, lo stato di salute dell’affetto da malattia cronica, riducendo, di fatto, in caso di regressione della malattia, il periodo di validità dell’attestato di esenzione già rilasciato.
Si rileva pertanto una lesione dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, che compete allo Stato fissare ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lett. m) della Costituzione.

L'art. 59 sembra assumere la natura di legge-provvedimento, figura che ricorre quando con una previsione di contenuto particolare e concreto si incide su un numero limitato di destinatari, attraendo alla sfera legislativa quanto è normalmente affidato all'autorità amministrativa (ex plurimis, sentenze n. 114 del 2017 Cn. 214 del 2016).
E' noto che, "per costante giurisprudenza della Corte, le leggi provvedimento non sono di per sé contrarie alla Costituzione, la quale non contiene alcuna riserva agli organi amministrativi o esecutivi degli atti a contenuto particolare e concreto; devono però sottostare "ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio"(sentenza Corte Cost. 275/2013".)
Nel caso di specie, l'intervento normativo è diretto a consentire l'iscrizione nell'elenco speciale di cui all'art. 6, comma 1, lett. f) della legge 5 marzo 2008 n. 3 ai soggetti la cui domanda di iscrizione al suddetto elenco è stata archiviata con determina del 4.10.2018, n. 4578, sulla base della mera proposizione di un ricorso al TAR. Va poi precisato che nei confronti dei soggetti iscritti nel suddetto elenco la Regione subentra agli enti di provenienza nei rapporti giuridici ed economici.
La procedura delineata dalla norma consentendo l'iscrizione dei soggetti esclusi sulla base della mera proposizione di una domanda giudiziale e la conseguente instaurazione di rapporti di lavoro con l'ente regionale, si pone in violazione delle norme che garantiscono il principio di eguaglianza di cui agli articoli 3, 51, primo comma e 97 ultimo comma Costituzione, considerato che la giurisprudenza della Corte Costituzionale afferma che la regola del pubblico concorso ammette eccezioni "rigorose e limitate" (cfr. sentenza 293/2009) non rinvenibile nel caso di specie.


Per i suddetti motivi, si ritiene di promuovere la questione di legittimità costituzionale della legge regionale dinanzi alla Corte Costituzionale, ai sensi dell'articolo 127 della Costituzione.

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