Dettaglio Legge Regionale

Nuove disposizioni per il recupero dei sottotetti a fini abitativi. (23-12-2019)
Veneto
Legge n.51 del 23-12-2019
n.150 del 27-12-2019
Politiche infrastrutturali
21-2-2020 / Impugnata
La legge regionale, che reca "Nuove disposizioni per il recupero dei sottotetti a fini abitativi " è censurabile relativamente alle norme contenute negli articoli 1, comma 1, e 2, commi 1, 2 e 3, e 3 , che, per i motivi di seguito specificati, violano gli articoli 3 e 97 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, l’articolo 32 della Costituzione , che riconosce la tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo, in contrasto altresì con la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio , di cui all’articolo 117, secondo comma lettera s) della Costituzione , e principi fondamentali in materia di governo del territorio e tutela della salute, e quindi con il terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione.
In particolare :
1) L'art. 1 della legge regionale in parola statuisce che: "1. La Regione del Veneto promuove il recupero dei sottotetti a fini abitativi con l'obiettivo di contenere il consumo di suolo attraverso un più efficace riutilizzo dei volumi esistenti e la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente, favorendo la messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento dei consumi energetici, nel rispetto delle caratteristiche tipologiche e morfologiche degli edifici nonché delle prescrizioni igienico-sanitarie riguardanti le condizioni di abitabilità, salvo quanto previsto all'articolo 2.
2. Si definisce come sottotetto, affini della presente legge, i volumi sovrastante l'ultimo piano degli edifici destinati in tutto o in parte a residenza ".
Il successivo art. 2, "condizioni e limiti di applicazione ", dispone che:
"1. Il recupero dei sottotetti è consentito purché risultino legittimamente realizzati alla data del 6 aprile 2019. il regolamento edilizio comunale determina le condizioni e i limiti per il recupero a fini abitativi dei sottotetti, fermo restando il rispetto dei seguenti parametri:
a) l'altezza utile media di 2,40 metri per i locali adibiti ad abitazione, di 2,20 metri per i Comuni montani disciplinati ai sensi della legge regionale 28 settembre 2012, n. 40 "Norme in materia di unioni montane" e di 2,20 metri per i locali adibiti a servizi, quali corridoi, disimpegni, ripostigli e bagni. L'altezza utile media sarà calcolata dividendo il volume utile della parte del sottotetto la cui altezza superi 1,60 metri, ridotto a 1,40 metri per i comuni montani, per la relativa superficie utile; gli eventuali spazi di altezza inferiore ai minimi devono 'essere chiusi mediante opere murarie o arredi fissi e ne può essere consentito l'uso come spa4o di servizio destinato a guardaroba e a ripostiglio. Per i locali con soffitto a volta, l'altezza mediti è calcolata come media aritmetica tra l'altezza dell'imposta e quella del colmo misurata con una tolleranza fino al 5 per cento;
b) il rapporto illuminante deve essere pari o superiore a un sedicesimo;
le disposizioni sopra richiamate si pongono in contrasto con il disposto di cui al e) .i progetti di recupero devono prevedere idonee opere di isolamento termico anche ai fini del contenimento di consumi energetici che devono essere conformi alle prescrizioni tecniche ed energetiche ai sensi del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 "Attuazione della direttiva 200219110E relativa al rendimento energetico nell'edilizia";
d) il recupero dei sottotetti consentito esclusivamente per l'ampliamento delle unità abitative esistenti e non può determinare un aumento del numero delle stesse.
2. Gli interventi edilizi finalizzati al recupero dei sottotetti, devono avvenire senza alcuna modificazione della sagoma dell’edificio esistente, delle altezze di colmo e di gronda nonché delle linee di pendenza delle falde, fatta salva la necessità di inspessire verso l'esterno le falde di copertura per garantire i requisiti di rendimento energetico. Il regolamento edilizio comunale determina le tipologie di apertura nelle falde e ogni altra condizione alfine di rispettare gli aspetti paesistici, monumentali e ambientali dell'edificio sul quale si intende intervenire".
Le disposizioni sopra richiamate si pongono in contrasto, in particolare, con il disposto di cui al D.M. 5 luglio 1975 "Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione", il quale all'articolo 1 stabilisce che:
-l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione è fissata in m. 2,70, riducibili a m. 2,40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli (comma 1);
- nei comuni montani al di sopra dei m. 1000 sul livello del mare può essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a m. 2,55 (comma 2);
le altezze minime previste nel primo e secondo comma possono essere derogate entro i limiti già esistenti e documentati per i locali di abitazione di edifici situati in ambito di comunità montane sottoposti ad interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie quando l'edificio presenti caratteristiche tipologiche specifiche del luogo meritevoli di conservazione ed a condizione che la richiesta di deroga sia accompagnata da un progetto di ristrutturazione con soluzioni alternative atte a garantire, comunque, in relazione al numero degli occupanti, idonee condizioni igienico-sanitarie dell'alloggio, ottenibili prevedendo una maggiore superficie dell'alloggio e dei vani abitabili ovvero la possibilità di una adeguata ventilazione naturale favorita dalla dimensione e tipologia delle finestre, dai riscontri d'aria trasversali e dall'impiego di mezzi di ventilazione naturale ausiliaria (comma 3)
Il Medesimo D.M. 5 luglio 1975 , all'articolo 5, prevede che:
"5. Tutti i locali degli alloggi, eccettuati quelli destinati a servizi igienici, disimpegni, corridoi, vani-scala e ripostigli debbono fruire di illuminazione naturale diretta, adeguata alla destinazione d'uso.
Per ciascun locale d'abitazione, l'ampiezza della finestra deve essere proporzionata in modo da assicurare un valore di fattore luce diurna medio non inferiore al 2%, e comunque la superficie finestrata apribile non dovrà essere inferiore a 1/8 della superficie dei pavimento.
Per gli edifici compresi nell'edilizia pubblica residenziale occorre assicurare, sulla base di quanto sopra disposto e dei risultati e sperimentazioni razionali, l'adozione di dimensioni unificate di finestre e, quindi, dei relativi infissi. ".
Le disposizioni regionali in questione non appaiono coerenti, inoltre, con la disciplina contenuta nel D.M. 26 giugno 2015 "Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici", Allegato 1, punto 2.3 "Prescrizioni", n. 4, laddove si prevede che "..nei caso di installazione di impianti termici dotati di pannelli radianti a pavimento o a soffitto e nel caso di intervento di isolamento dall'interno, le altezze minime dei locali di abitazione previste al primo e al secondo comma, del decreto ministeriale 5 luglio 1975, possono essere derogate, fino a un massimo di 10 centimetri. Resta fermo che nei comuni montani al di sopra dei metri 1000 sul livello del mare può essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a metri 2,55...
Al riguardo, si segnala che il Consiglio di Stato, Sez. IV, nella sentenza n. 1997 dei 2014, ha avuto modo di affermare che "...Come chiarito da Corte costituzionale n. 256/196, "la disciplina del condono non vale ad escludere ogni obbligo da parte dei Comune di accertamento delle condizioni di salubrità ai fini dell'abitabilità degli edifici.....". "Né rileva" prosegue la Corte "la circostanza che l'art. 35, ventesimo comma, preveda, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, poiché la deroga non riguarda, i requisiti richiesti da disposizioni legislative ". Ne deriva che "deve escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità pur nella più semplice forma disciplinata dai d.P. R. n. 425 del 1.994 a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui al articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'articolo 4 del dP.R. n, 425 del 1994), ma, altresì, quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica, quali quelle a tutela delle acque dall'inquinamento, quelle sul consumo energetico, ecc.". Nel caso di specie, rileva il Consiglio di Stato, "ad essere violate sono le norme in tema di altezza minima ed aereoilluminazione che, seppur previste dal Decreto del Ministro della Sanità dei 5/7/1975 (è quindi da norme di carattere regolamentare) costituiscono diretta attuazione degli articoli 218, 344 e 345 del testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934 n. 126. Il carattere secondario della fonte non toglie che esse attengano direttamente alla salubrità e vivibilità degli ambienti, ossia a condizioni tutelate direttamente da norme primarie e costituzionali. In questi casi, cioè, la norma secondaria concretizza il generico imperativo della norma primaria sostanziandone il contenuto minimo inderogabile in direzione di una tutela della salute e sicurezza degli ambienti. La verifica dell'abitabilità non può prescinderne.
Del resto, una diversa interpretazione che giungesse a sostenere la derogabilità dei requisiti minimi di salubrità, per il sol fatto di essere fissati con norma regolamentare si porrebbe sicuramente in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, oltre che con l'ari. 32 della stessa......”
Alla luce della giurisprudenza sopra richiamata le disposizioni regionali in commento, che contengono una disciplina a regime per il recupero dei sottotetti a fini abitativi (tanto è vero che all'articolo 5, comma 3, si dispone che "Le volumetrie dei sottotetti recuperate ai sensi della presente legge non sono computabili ai fini dell'applicazione degli articoli 6 e 7 della legge regionale 4 aprile 2019, n 14) violano il principio di ragionevolezza di cui all'articolo 3 della Costituzione e l'articolo 32 della stessa per contrasto con i parametri interposti rappresentati dalle citate disposizioni del D.M. 5 luglio 1975. In via subordinata, viene in rilievo la violazione dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione con riferimento alle materie "governo del territorio" e "tutela della salute".

2) La norma di cui all'articolo 2, comma 2, impone, opportunamente, che il recupero dei sottotetti avvenga senza alcuna modificazione della sagoma dell'edificio esistente, delle altezze di colmo e di gronda, nonché delle linee di pendenza delle falde, fatta eccezione per l'ispessimento delle falde al fine di garantire i requisiti di rendimento energetico. Sono escluse, pertanto, le modificazioni più significative dell'aspetto esteriore degli edifici che potrebbero derivare dal recupero in questione e avere rilevanza paesaggistica.
Va osservato che il recupero dei sottotetti può rendere necessaria l'apertura di finestre a raso e la creazione di abbaini o di altre tipologie di aperture, onde assicurare i requisiti illuminotecnici e di aerazione, ai fini dell'abitabilità dei locali sottotetto. Al riguardo, la medesima disposizione demanda al regolamento edilizio comunale la determinazione delle "tipologie di apertura nelle falde e ogni altra condizione alfine di rispettare gli aspetti paesistici, monumentali e ambientali dell'edificio sul quale si intende intervenire".
Inoltre, al comma 3, con riguardo alla tutela monumentale di competenza statale, vengono fatte salve le diverse disposizioni della Parte II del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Per quanto concerne la tutela paesaggistica, vengono invece fatte salve "le diverse previsioni del piano regolatore comunale per gli edifici soggetti a tutela ai sensi degli articoli 13 e 17 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 - Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio", facendo esclusivo riferimento ai contenuti del piano regolatore comunale.
Occorre evidenziare che anche l'introduzione di aperture nei tetti può rivestire una rilevanza paesaggistica, in particolare nell'ambito dei centri storici o dell'edilizia storica extraurbana, pertanto la determinazione delle "tipologie di apertura nelle falde e ogni altra condizione alfine di rispettare gli aspetti paesaggistici" non può essere demandata, per gli ambiti territoriali sottoposti a tutela paesaggistica, ai regolamenti edilizi o ai piani urbanistici comunali, ma deve essere regolata necessariamente dal Piano paesaggistico, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, o dalla disciplina d'uso dei beni paesaggistici, di cui agli articoli 140, 141 e 141-bis del medesimo Codice.
Le citate disposizioni regionali invadono la sfera di competenza esclusiva riservata allo Stato, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, e pregiudica l'interesse costituzionale alla tutela del paesaggio, di cui all'articolo 9 della Costituzione, che costituisce valore primario e assoluto (Corte cost. 367 del 2007).
Già con la sentenza n, 9 del 2004 la Corte Costituzionale ha evidenziato come rientri tra le attività costituenti tutela, riservata in via esclusiva allo Stato, quella diretta "a conservare i beni culturali e ambientali", ossia diretta "principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale". In tale pronuncia, la Corte ha sottolineato che "la riserva di competenza statale sulla tutela dei beni culturali è legata anche alla peculiarità del patrimonio storico-artistico italiano, formato in grandissima parte da opere nate nel corso di oltre venticinque secoli nel territorio italiano e che delle vicende storiche del nostro Paese sono espressione e testimonianza. Essi vanno considerati nel loro complesso come un tutt'uno, anche a prescindere dal valore del singolo bene isolatamente considerato".
In termini più generali, la Corte ha precisato che: "Sul territorio, infatti, «vengono a trovarsi di fronte» - tra gli altri - «due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 367 del 2007, punto 7.1 del Considerato in diritto). Fermo restando che la tutela del paesaggio e quella del territorio sono necessariamente distinte, rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi. Se il legislatore regionale potesse definire a propria discrezione tale linea, la conseguente difformità normativa che si avrebbe tra le varie Regioni produrrebbe rilevanti ricadute sul «paesaggio [ ... J della Nazione» (art. 9 Cost.), inteso come «aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale» (sentenza n. 367 del 2007), e sulla sua tutela" (sentenza n. 309 del 2011).
Le disposizioni contrastano anche con la scelta del legislatore statale di rimettere alla pianificazione la disciplina d'uso dei beni paesaggistici (c.d. vestizione dei vincoli), ai fini dell' autorizzazione degli interventi; scelta esplicitata negli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturale e del paesaggio, costituenti norme interposte rispetto al parametro costituzionale di cui agli articoli 9 e 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.
Al riguardo, occorre tenere presente che la parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio delinea un sistema organico di tutela paesaggistica, inserendo i tradizionali strumenti del provvedimento impositivo del vincolo e dell'autorizzazione paesaggistica nel quadro della pianificazione paesaggistica del territorio, che deve essere elaborata concordemente da Stato e Regione. Tale pianificazione concordata prevede, per ciascuna area tutelata, le cd. prescrizioni d'uso (e cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e stabilisce la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni.
Il legislatore nazionale, nell'esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia, ha assegnato al piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale. Gli articoli 143, comma 9, e 145, comma 3, del Codice di settore sanciscono infatti l'inderogabilità delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché l'immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte cost. n. 180 del 2008).
Si tratta di una scelta di principio la cui validità e importanza è già stata affermata più volte dalla Corte costituzionale, in occasione dell'impugnazione dileggi regionali che intendevano mantenere uno spazio decisionale autonomo agli strumenti di pianificazione dei Comuni e delle Regioni, eludendo la necessaria condivisione delle scelte attraverso uno strumento di pianificazione sovracomunale, definito d'intesa tra lo Stato e la Regione. La Corte ha, infatti, affermato l'esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (Corte cost. n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica "è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull'intero territorio nazionale" (Corte cost., n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009).
La legge regionale in esame, e in particolare l'articolo 2, commi 2 e 3, confligge con la normativa statale, laddove affida esclusivamente agli strumenti urbanistici la disciplina che regola, per i beni paesaggistici, le possibili trasformazioni delle coperture degli edifici, potenzialmente anche molto rilevanti. Basti pensare, in proposito, all'eventualità della diffusa introduzione di finestre a raso o abbaini sulle coperture delle unità edilizie che compongono il tessuto dei centri storici tutelati sotto il profilo paesaggistico.
Questo profilo di illegittimità non viene meno per il fatto che la disciplina regionale non esclude la necessità di munirsi, per gli interventi relativi a beni tutelati, anche dell'autorizzazione paesaggistica, in quanto la normativa regionale comunque consente, a monte e in astratto, possibili ampie trasformazioni degli immobili e quindi del contesto tutelato, a scapito della sua "conservazione" e "integrità". Viene pertanto compromessa la possibilità di una valutazione complessiva della trasformazione del contesto tutelato, quale dovrebbe avvenire nell'ambito del Piano paesaggistico, adottato previa intesa con lo Stato e attualmente in itinere, rimettendo alla Soprintendenza una valutazione caso per caso degli interventi.
La norma regionale peraltro, così come configurata, si presta anche a possibili equivoci da parte dell'utenza, essendo suscettibile di ingenerare l'erronea aspettativa di una valutazione favorevole anche in sede paesaggistica nel caso di interventi in linea con i regolamenti edilizi o i piani regolatori comunali, con l'ulteriore rischio di incrementare il contenzioso.
Occorre, infine, anche rilevare la violazione del principio di leale collaborazione, atteso che da anni è in corso con la Regione Veneto il tavolo di copianificazione per l'elaborazione congiunta del Piano paesaggistico regionale, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice, sede istituzionalmente deputata al confronto sulle questioni in esame.
Va ricordato al riguardo che, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale, il principio di leale collaborazione "deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni", atteso che "la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti" (così in particolare, tra le tante, Corte Cost. n. 31 del 2006). In particolare, la Corte ha chiarito che "11 principio di leale collaborazione, anche in una accezione minimale, impone alle parti che sottoscrivono un accordo ufficiale in una sede istituzionale di tener fede ad un impegno assunto" (così ancora la sentenza richiamata).
La scelta della Regione Veneto di assumere iniziative unilaterali, al di fuori del percorso di collaborazione già proficuamente avviato con lo Stato, si pone, pertanto, in contrasto anche con il predetto principio.
Alla luce di quanto precede, l'articolo 2, commi 2 e 3, deve essere impugnato per violazione dell'articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione - in relazione agli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio - nonché per la violazione dell'articolo 9 della Costituzione e del principio di leale collaborazione.



3) L'art. 3 della legge regionale statuisce , ai commi 1 e 2 , che "1. Gli interventi diretti al recupero dei sottotetti sono classificati come ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia".
2. Gli interventi previsti dal comma 1 sono soggetti a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e comportano la corresponsione di un contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria ed al costo di costruzione di cui all'articolo 16 del medesimo decreto, calcolati sulla volumetria, resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione”
Dette previsioni nell’assoggettare gli interventi diretti al recupero dei sottotetti, correttamente qualificati quali ristrutturazioni edilizie ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d) dei d.P.R. n. 380 del 2001, a SCIA segnalazione certificata di inizio attività, viola le norme interposte contenute negli articoli 10, comma 1, lettera c) , 23, comma 01, lett. a) e 22, comma 1, lett. e) del testo unico dell’edilizia d.P.R. n. 380 del 2001, le quali esigono, per tale tipologia di intervento, il permesso di costruire o la SCIA alternativa al permesso di costruire.
Il mero riferimento operato dalla disposizione regionale in parola alla "segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA) ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n 380 del 2001” stante la genericità del richiamo al TUE, non appare di per sé solo sufficiente ad indicare correttamente il titolo richiesto dalla normativa statale ai fini della realizzabilità dei predetti interventi. Infatti, come noto, le disposizioni del TUE riguardano anche la SCIA di cui all'articolo 22 del medesimo DPR.
La norme regionale quindi, violando le disposizioni sopra richiamate del Testo Unico dell’edilizia , che costituiscono principi fondamentali in materia di governo del territorio, si pongono in contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Per questi motivi la legge regionale, limitatamente alle disposizioni sopra evidenziate, deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.


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