Dettaglio Legge Regionale

Interventi di sostegno finanziario e di semplificazione per contrastare l’emergenza da Covid19. (29-5-2020)
Piemonte
Legge n.13 del 29-5-2020
n.22 del 29-5-2020
Politiche economiche e finanziarie
/ Rinuncia parziale
22-7-2020 / Impugnata
La legge regione Piemonte n. 13 pubblicata sul B.U.R n. 22 del 29/05/2020 recante “Interventi di sostegno finanziario e di semplificazione per contrastare l’emergenza da Covid19” presenta i seguenti profili di illegittimità costituzionale e va pertanto impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.

L'articolo 23 al comma 2 stabilisce che le misure straordinarie ivi previste, attraverso azioni di monitoraggio, comunicazione, promozione, marketing e di sostegno alle attività degli operatori del comparto, "sono finalizzate alla realizzazione di campagne promozionali per il rilancio turistico della Regione e il riavvio economico dell'intera filiera dei comparto, sia con iniziative a titolarità regionale, sia con la concessione di contributi a favore di consorzi e società consortili di cui alla legge regionale 14/2016" (Nuove disposizioni in materia di organizzazione dell'attività di promozione, accoglienza e informazione turistica in Piemonte).
Autorizzando la Regione ad adottare misure straordinarie a favore di società a prevalente capitale pubblico (la DM0 Turismo Piemonte e le ATL - Agenzie di accoglienza e promozione turistica locale) e in assenza di richiamo ai limiti previsti dall'articolo 14 del TUSP sulle crisi di impresa delle società a partecipazione pubblica, né a quelli di derivazione europea, la norma realizza una violazione dell'articolo 117, comma 2, lett. e), della Costituzione, che attribuisce alla competenza legislativa esclusiva statale la materia della tutela della concorrenza, ragion per cui sussisterebbero le condizioni per sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma in esame.

Articolo 52
L’articolo 52 rubricato "Disposizioni in materia di autorizzazioni commerciali", prevede che: "Al fine di contrastare gli effetti dell'emergenza da Covìd-19, con particolare riguardo agli esercizi di vicinato gravemente danneggiati dal contesto emergenziale, a far data dall'approvazione della presente legge la presentazione delle domande per il rilascio di autorizzazioni per nuova apertura di centri, trasferimento di sede, ampliamento di superficie degli esercizi di vendita è sospesa fino al 31 gennaio 2021".
La norma in esame dispone una sospensione fino al 31 gennaio 2021 della facoltà di presentazione di istanze volte ad ottenere l'apertura, il trasferimento o l'ampliamento delle grandi strutture di vendita contemplate dall'art. 9 del decreto legislativo 114/1998, col dichiarato scopo "di contrastare gli effetti dell'emergenza Covid-19, con particolare riguardo agli esercizi di vicinato [art. 7, d. Lgs. 114/1998] gravemente danneggiati dal contesto emergenziale".
Tale previsione, è in "controtendenza" con le misure statali finora approvate per il rilancio dell'economia dopo l'emergenza Covid-19, volte a semplificare e ad accelerare i procedimenti amministrativi al fine di favorire il rilascio delle autorizzazioni in materia di attività d'impresa.
La disposizione comporta una violazione dei prìncipi vigenti in materia di libera concorrenza ed una limitazione dei diritti garantiti dalle norme sul procedimento amministrativo, con grave e conseguente danno per gli operatori della grande distribuzione (vale a dire quelli aventi superficie di vendita superiore a 1.500 mq nei comuni con meno di 10.000 abitanti e a 2.500 mq in quelli con più di 10.000 residenti).
La norma si pone in contrasto con il principio della tutela della concorrenza, ex art. 117, comma 2, lett. e) della Costituzione, e anche con il principio di cui alla lettera m) dello stesso articolo, perché deroga in peius l'omogeneità in tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni, vale a dire dei requisiti normativamente richiesti per l'avvio e l'esercizio di un'attività d'impresa, creando una oggettiva disparità delle condizioni a discapito delle imprese operanti nel territorio regionale.

Articolo 61
La norma prevede che i termini per la conclusione della seconda conferenza di copianificazione e valutazione siano ridotti di 30 giorni (passando da 120 a 90 giorni) sia in caso di variante strutturale, sia in caso di variante generale, riducendo anche il termine per la proroga da 60 a 30 giorni. Sono inoltre ridotti di 30 giorni i termini previsti all'articolo 11, commi 4 e 6, del Regolamento regionale che disciplina la conferenza di copianificazione e valutazione prevista dall'articolo 15-bis della legge regionale n. 56 del 1977.
La scelta della Regione di incidere sui termini e, quindi, sulle modalità operative della predetta conferenza, al di fuori di qualsivoglia previa condivisione con l’Amministrazione compartecipe dell’attività svolta nella predetta sede procedimentale, si pone in contrasto con il principio di leale collaborazione. Si sottolinea, inoltre, che il ristretto termine previsto dalla Regione è da ritenere del tutto inadeguato laddove si tratti, in particolare, della valutazione della pianificazione dei Comuni di maggiori dimensioni e soprattutto dei capoluoghi di Provincia.
L’Accordo sul Piano paesaggistico del 14 marzo 2017, stipulato tra la Regione e il Ministero dei beni e delle attività culturali, è stato concluso assumendo come presupposto la disciplina della conferenza di pianificazione prevista dalla legge regionale n. 56 del 1977, e le modalità di adeguamento degli strumenti urbanistici al PPR, nonché le modalità per la verifica di coerenza delle varianti, sono state disciplinate nel regolamento approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale n. 4/R del 22 marzo 2019, frutto anch’esso di un percorso condiviso con il Ministero.
La Regione Piemonte si è quindi impegnata con il Ministero a disciplinare congiuntamente tali fasi di adeguamento e verifica di adeguamento, ivi compresi i termini procedimentali, per cui la scelta della stessa Regione di assumere iniziative unilaterali, al di fuori del percorso di collaborazione già proficuamente intercorso con lo Stato, si pone in contrasto con il principio di leale collaborazione di cui agli articoli 5 e 120 della Costituzione.
Sono, inoltre, violati gli articoli 3, 9 e 97 della Costituzione, in quanto la norma censurata, riducendo in via generalizzata i termini fissati di 30 giorni, e in alcuni casi dimezzandoli, rende più arduo lo svolgimento tempestivo dell’istruttoria, così ponendosi in contrasto con i principi di proporzionalità e ragionevolezza (di cui all’articolo 3 della Costituzione) e con il principio di buon andamento dell’amministrazione (di cui all’articolo 97 della Costituzione) e abbassando il livello di tutela del paesaggio (da ciò il contrasto anche con l’articolo 9 della Costituzione).
Deve, poi, tenersi presente che nell’ambito dei procedimenti relativi alla fase di verifica di coerenza e di adeguamento al piano paesaggistico degli strumenti urbanistici comunali e loro varianti deve essere garantita la compiuta partecipazione degli organi ministeriali, ai sensi dell’articolo 145, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
La Regione ha, pertanto, l’obbligo, nel disciplinare la procedura di adeguamento, di prevedere termini congrui per lo svolgimento dell’istruttoria, così da garantire agli organi ministeriali lo svolgimento della funzione loro spettante. Nel caso in esame, la significativa riduzione dei termini della seconda conferenza di pianificazione è radicalmente incompatibile con le esigenze di corretto svolgimento dell’istruttoria. Ciò in particolare per quanto riguarda i Comuni di maggiori dimensioni (in termini di estensione territoriale e di popolazione residente), rispetto ai quali non è ipotizzabile che la valutazione delle varianti strutturali e generali dello strumento urbanistico sia svolta negli esigui termini previsti, imposti alle amministrazioni centrali, le cui attività vengono ad essere unilateralmente condizionate dalla Regione con la norma in contestazione.
La norma regionale si pone, pertanto, in contrasto con l’articolo 145, comma 5, del Codice, in quanto rende particolarmente difficile la partecipazione delle amministrazioni suddette alla fase di conformazione e adeguamento degli strumenti urbanistici. Da ciò la violazione anche dell’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale il predetto articolo 145, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio costituisce norma interposta.

Articolo 62
Considerazioni analoghe a quanto illustrato al punto precedente valgono anche in relazione alla disposizione in esame.
L’articolo estende il novero delle varianti parziali al PRG, facendo sì che, mediante la modifica dei parametri di riferimento, siano qualificabili come varianti parziali modifiche allo strumento urbanistico precedentemente classificate come varianti generali. In particolare, la norma incide sui limiti di incremento delle superfici territoriali o degli indici di edificabilità previsti dal PRG vigente, relativi alle attività produttive, direzionali, commerciali, turistico-ricettive, il cui superamento comporta la qualificazione della variante come generale. Tali limiti sono incrementati dal 6 all’8 per cento nei comuni con popolazione residente fino a diecimila abitanti, dal 3 al 4 per cento nei comuni con popolazione residente compresa tra i diecimila e i ventimila abitanti, dal 2 al 3 per cento nei comuni con popolazione residente superiore a ventimila abitanti.
Tale estensione avviene a scapito delle varianti generali, che comportano contestualmente l'adeguamento al PPR, diminuendo pertanto l'efficacia dello strumento sovraordinato di tutela. L’estensione delle varianti parziali così prevista compromette il processo di adeguamento al PPR, come di seguito si illustra.
La disposizione censurata presenta ricadute molto rilevanti, in quanto le prescrizioni dell’articolo 46 delle NTA del PPR prevedono che, dopo l’approvazione dello stesso PPR, gli Enti preposti non possano approvare varianti generali che non siano comprensive dell’adeguamento dell’intero strumento urbanistico al PPR stesso. Diversamente, per le varianti non generali, si dispone che, anche in assenza di adeguamento, le modifiche apportate agli strumenti di pianificazione devono essere semplicemente coerenti con le norme del PPR, ma limitatamente alle aree da esse interessate. In altri termini, le varianti generali comportano contestualmente l’adeguamento dell’intero strumento urbanistico al PPR, mentre un analogo obbligo non è previsto per le varianti parziali, rispetto alle quali viene effettuata una valutazione di coerenza con il PPR limitata solo alla porzione di territorio comunale interessata dalla stessa variante.
Conseguentemente, la previsione normativa incide direttamente sull’adeguamento degli strumenti urbanistici al PPR, sottraendo una serie di varianti al necessario processo di conformazione dello strumento urbanistico comunale. E ciò in relazione a interventi che oltretutto appaiono fortemente invasivi per il paesaggio, in quanto potenzialmente idonei a determinare la trasformazione di suolo inedificato. Tali interventi sono quindi oggetto di una valutazione limitata e parcellizzata, senza che il loro inserimento nel contesto urbanistico avvenga nel quadro dell’armonico recepimento delle previsioni del PPR.
Il “declassamento” di un intervento da variante generale a variante parziale comporta pertanto inevitabilmente anche l’abbassamento del livello di tutela.
Anche in questo caso si ravvisa, pertanto, la violazione del principio di leale collaborazione, stante l’iniziativa assunta unilateralmente dalla Regione, in violazione degli accordi intercorsi con il Ministero dei beni e delle attività culturali, nonché dell’articolo 9 della Costituzione, in ragione del già visto abbassamento della tutela. Sono violati anche gli articoli 135, comma 1, 143, comma 2, e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio – concernenti l’elaborazione dei piani paesaggistici d’intesa tra lo Stato e la Regione – che costituiscono norme interposte rispetto all’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.

Articolo 79 (Destinazioni d'uso temporanee)
La norma prevede che il Comune, a fini di "recupero e valorizzazione di immobili e spazi urbani dismessi o in via di dismissione", nonché per favorire lo sviluppo di iniziative economiche e agevolare interventi di rigenerazione urbana, possa consentire l'utilizzazione temporanea di immobili, o parti di essi, per usi diversi da quelli consentiti, "per la realizzazione di iniziative di rilevante interesse pubblico", precisando altresì che tale uso temporaneo "non comporta il mutamento della destinazione d'uso delle unità immobiliari interessate" (comma 1). Si precisa, inoltre, che i criteri, i termini e le modalità di utilizzo degli spazi in questione sono stabiliti con apposita convenzione approvata dal Comune (comma 3).
Tale previsione, innanzi tutto, interferisce con le definizioni degli interventi edilizi contenute nell'articolo 3 del d.P.R. n. 380/2001, laddove il mutamento di destinazione d'uso non viene individuato ex se come autonoma tipologia di intervento, ma piuttosto costituisce una possibile modalità attuativa di taluni degli interventi edilizi definiti dalla norma (in definitiva, tutti tranne quelli di manutenzione ordinaria e straordinaria di cui alle lettere a) e b) del comma 1). In questo caso, dal tenore della norma sembra che il Comune possa autorizzare mutamenti d'uso, ancorché temporanei di immobili o parti di immobili esistenti, senza che sia dato comprendere in quale tipologia di interventi tale operazione debba inquadrarsi, potendo pertanto ipotizzarsi o che il legislatore regionale mediante la previsione in esame miri ad enucleare una nuova e autonoma tipologia di intervento edilizio o che i mutamenti temporanei de quibus possano attuarsi attraverso qualsivoglia fra gli interventi indicati nell'articolo 3 del T.U.; in entrambe le ipotesi, ci si troverebbe al cospetto di violazioni di principi fondamentali della legislazione statale in materia: nel primo caso perché il legislatore regionale avrebbe indebitamente individuato una autonoma tipologia di intervento edilizio "scorporandolo" dalle definizioni valide per tutto il territorio nazionle, nel secondo caso perché si sarebbe estesa l'ammissibilità dei mutamenti di destinazione d'uso' anche agli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, in contrasto con quanto statuito a livello di normazione statale.
In secondo luogo, l'uso dell'anodino verbo "consentire" rende del tutto incerto quale sia il titolo abilitativo attraverso il quale il Comune dovrebbe legittimare gli interventi di mutamento di destinazione d'uso temporanei, salva la previsione di chiusura per cui "in assenza di opere edilizie è attuato senza titolo abilitativo" (comma 1). Ciò conferma che nella specie ci si trova al cospetto di un novum genus di intervento edilizio, in contrasto con il numerus clausus fissato a livello statale dall'articolo 3 del T.U., ovvero di una attività realizzabile attraverso plurime modalità, comprendenti anche la possibile realizzazione di opere edilizie (come confermato anche dalla previsione del comma 6, in cui è contemplata la eventualità che l'intervento richieda anche "opere di urbanizzazione"), ma la cui definizione è lasciata alla determinazione convenzionale delle parti, alle quali è rimesso stabilire anche quale sia il titolo abilitativo di volta in volta necessario.
Ancora, va rimarcato che la norma apparentemente non pone limiti alle modifiche temporanee astrattamente apportabili alla destinazione d'uso dell'immobile preesistente, e tuttavia si premura di precisare che in questi casi l'intervento "non comporta il mutamento di destinazione d'uso delle unità immobiliari interessate": con ciò apparendo legittimare anche usi temporanei che in via ordinaria concreterebbero mutamenti di destinazione d'uso "urbanisticamente rilevanti" giusta la previsione dell'articolo 23-ter del d.P.R. n. 380/2001, con conseguente rottura dell'unità e omogeneità del regime dei mutamenti d'uso sull'intero territorio nazionale.
Infine, e ciò che è più rilevante nella specie, la disposizione "scorpora" gli interventi in oggetto dal regime delle opere temporanee di cui all'articolo 6, comma 1, lettera e-bis), dello stesso d.P.R. n. 380/2001, le quali per espressa previsione normativa costituiscono attività edilizia libera "Fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali", laddove dal tenore testuale della norma in esame emerge che l'utilizzazione temporanea ivi disciplinata può avvenire anche in deroga o in violazione degli strumenti urbanistici (ciò si evince non solo dal riferimento ad "usi diversi da quelli consentiti", che evidentemente rinvia a ciò che sarebbe ordinariamente consentito dalle disposizioni urbanistiche vigenti, ma anche dal successivo comma 2 laddove individua un limite all'ammissibilità dell'uso temporaneo nel fatto che esso "non compromett[a] la finalità delle destinazioni prevalenti previste dal PRG").
Sotto tutti i profili evidenziati, la norma in esame vulnera principi fondamentali della legislazione statale in materia di governo del territorio e si pone, quindi, in violazione dell'articolo 117, comma 3, della Costituzione.

Alla luce delle considerazioni che precedono, si ritiene di dover impugnare la legga regionale in esame ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.

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