Dettaglio Legge Regionale

Prima legge di revisione normativa ordinamentale 2020. (9-6-2020)
Lombardia
Legge n.13 del 9-6-2020
n.24 del 11-6-2020
Politiche ordinamentali e statuti
22-7-2020 / Impugnata
Con la presente legge la Regione Lombardia opera una modifica della normativa regionale in diverse materie.
Tuttavia la presente legge è censurabile per le seguenti motivazioni:
La legge regionale in oggetto contempla talune disposizioni che appaiono costituzionalmente illegittime, in quanto contrastanti con gli standard di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema posti dal legislatore statale nell’esercizio della competenza esclusiva ex art. 117, comma secondo, lettera s) della Costituzione, in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

La vigente normativa in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio è contenuta nella legge quadro 11 febbraio 1992, n. 157, concernente «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio» ritenuta dalla Corte Costituzionale disciplina contenente, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., il nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica, il cui rispetto deve essere assicurato sull’intero territorio nazionale (Corte Cost. n. 233/2010).
La stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale ha, sul punto, affermato che «spetta allo Stato, nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., stabilire standard minimi e uniformi di tutela della fauna, ponendo regole che possono essere modificate dalle Regioni, nell’esercizio della loro potestà legislativa in materia di caccia, esclusivamente nella direzione dell’innalzamento del livello di tutela» (ex plurimis, sentenze n. 303 del 2103, n. 278, n. 116 e n. 106 del 2012).

In particolare vengono censurate le seguenti disposizioni:
1) L’articolo 8, comma 1, lett. e), della legge de qua stabilisce quanto segue:
“Al comma 3 dell’articolo 24 dopo le parole “avifauna selvatica migratoria” aggiungere le seguenti: “salvo diversa disposizione specifica della Regione”.
Il nuovo comma 3 dell’art. 24 (Prelievo venatorio) della l.r. 26/1993 dispone quanto segue: “Per ogni giornata di caccia all’avifauna selvatica migratoria il cacciatore non può prelevare più di trenta capi, con il limite di due sole beccacce e di dieci capi tra palmipedi e trampolieri per cacciatore salvo diversa disposizione specifica della Regione”.
La modifica legislativa introdotta, nel cristallizzare in forma di legge i contenuti invece propri del calendario venatorio, si pone in contrasto con l’articolo 18, comma 4, della legge n. 157 del 1992, attribuendo una facoltà permanente alla Regione di modificare siffatti contenuti, anche in peius rispetto alle disposizioni statali, in assenza, tra l’altro, del parere obbligatorio di ISPRA previsto dalla legge quadro.
Demandare alla legge regionale anziché all’atto amministrativo questi contenuti impedisce al Presidente del Consiglio dei ministri di esercitare il potere di annullamento di tali provvedimenti, adottati dalle Regioni, attribuitogli dalla norma statale. Detto potere, per costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, è finalizzato a «garantire una uniforme e adeguata protezione della fauna selvatica su tutto il territorio nazionale» (cfr. Sentenza n. 250 del 2008).

2) L’art. 8, comma 1, lettera f), recante “Modifiche alla l.r. 26/1993” stabilisce quanto segue:
“alla fine del comma 5 dell’articolo 25 sono aggiunte le seguenti parole:
“durante i quali non è possibile rimuovere l’appostamento; tale disposizione si applica anche per il periodo temporale in cui il titolare dell’autorizzazione per comprovata causa di forza maggiore sia impossibilitato nel procedere al rinnovo dell’autorizzazione”.
A seguito di siffatta modifica il comma 5 dell’articolo 25 (Esercizio venatorio da appostamento fisso e temporaneo) della l.r. 26/1993 assume pertanto la seguente formulazione:
“L'autorizzazione per la caccia da appostamento fisso è rilasciata dalla Regione o dalla provincia di Sondrio per il relativo territorio e ha validità per dieci anni, salvo revoca o subentro di persona diversa nella titolarità della stessa; la domanda deve essere corredata da georeferenziazione GPS, ovvero da planimetria in scala 1.10.000, indicante l'ubicazione dell'appostamento, e dal consenso scritto del proprietario o del conduttore del terreno, lago o stagno privato in quanto l'appostamento importi preparazione del sito con modificazione e occupazione stabile del terreno. In caso di subentro di persona diversa, la relativa domanda va corredata unicamente del consenso scritto del proprietario o conduttore del terreno, lago o stagno privato e la validità decennale dell'autorizzazione, per una sola volta, decorre nuovamente dalla data del subentro stesso. La disposizione di cui al secondo periodo si applica anche in caso di subentro dell'erede al titolare dell'autorizzazione, purché in possesso dei requisiti richiesti. È ammesso il subentro nella titolarità di persona diversa dall'erede a seguito di rinuncia da parte di quest'ultimo, entro due anni dalla morte del titolare e secondo le disposizioni precedenti durante i quali non è possibile rimuovere l’appostamento”.
Tale disposizione si applica anche per il periodo temporale in cui il titolare dell’autorizzazione per comprovata causa di forza maggiore sia impossibilitato nel procedere al rinnovo dell’autorizzazione”.
La modifica normativa introdotta è illegittima sotto il profilo della legittimità costituzionale, in quanto viola i principi generali del diritto amministrativo, snaturando i criteri normativamente sanciti di durata, rinnovo, scadenza e decadenza del provvedimento amministrativo al solo scopo di eludere il disposto della legge quadro nazionale (n. 157 del 1992) che dispone la temporaneità dell’appostamento fisso, imponendone la rimozione indefettibile alla scadenza dell’autorizzazione, in assenza di rinnovo tempestivo (è noto, infatti, che il rinnovo deve essere chiesto prima della scadenza) o di subentro tempestivo.
Autorizzazioni anche non rinnovate o non fatte oggetto di subentro tempestivo verrebbero poste in uno stato di illegittima quiescenza ai fini della relativa riassegnazione consentendo di fatto la non rimozione dell’appostamento fisso, ciò in aperto contrasto con quanto previsto dalla legge n. 157 del 1992 che all’art. 5 comma 3-bis prevede espressamente che “l'autorizzazione rilasciata ai sensi del comma 3 costituisce titolo abilitativo e condizione per la sistemazione del sito e l'istallazione degli appostamenti strettamente funzionali all’attività, che possono permanere fino a scadenza dell'autorizzazione stessa e che, fatte salve le preesistenze a norma delle leggi vigenti, non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi, abbiano natura precaria, siano realizzati in legno o con altri materiali leggeri o tradizionali della zona o con strutture in ferro anche tubolari, o in prefabbricato quando interrati o immersi, siano privi di opere di fondazione e siano facilmente ed immediatamente rimuovibili alla scadenza dell'autorizzazione.”
La Regione non sarebbe legittimata, in una materia di competenza esclusiva dello Stato, a prefissare nelle forme della legge casi di deroga al regime autorizzatorio, neppure quando essi fossero già desumibili dall’applicazione in concreto della disciplina statale.
Le finalità sottese al regime autorizzatorio debbono venire assolte mediante lo strumento tipico previsto dalla legge statale, senza che la Regione possa addurre, in via surrogatoria, modalità procedimentali comunque diverse dall’autorizzazione (in questo senso Corte Costituzionale Sentenza n. 139/2013).
Inoltre la scadenza del titolo abilitativo sotto il profilo edilizio e eventualmente paesaggistico legittimerebbe la permanenza di un immobile abusivo, e che una siffatta autorizzazione senza scadenza viola i principi di legalità e tipicità dell’atto amministrativo di cui all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che trovano fondamento nell’art. 97 della Carta Costituzionale.

3) L’art. 8, comma 1, lett. i) della legge de qua stabilisce quanto segue:
“Il comma 7 dell’articolo 28 è sostituito dal seguente:
“Ogni cacciatore ha diritto di essere socio dell'ambito territoriale di caccia o del comprensorio alpino di caccia in cui ha la residenza anagrafica, con specifico riferimento all'indirizzo civico in cui risiede; gli Ambiti e Comprensori, nel rispetto delle priorità previste dall’art. 33, ammettono come soci anche cacciatori non residenti nei loro territori sino al raggiungimento degli indici di densità di cui al comma precedente. Le domande di ammissione devono essere presentate tra l’1 e il 31 marzo; i cacciatori già soci nella stagione precedente confermano la loro iscrizione attraverso il pagamento della quota di ammissione entro il 31 di marzo. Il mancato pagamento entro il termine fa decadere dalla qualità di socio. I cacciatori residenti che non confermino l’iscrizione entro il 31 di marzo possono ripresentare domanda di ammissione fuori termine ed essere ammessi con il pagamento di una quota maggiorata del 20% se la reiscrizione avviene entro il 31 maggio, del 40% se avviene successivamente. Ogni cacciatore residente in Regione Lombardia può essere socio di altri ambiti o comprensori alpini di caccia della regione, oltre a quello di residenza, previa accettazione della domanda da parte degli stessi e nel rispetto delle priorità individuate dall’art. 33. Il dirigente competente stabilisce con proprio provvedimento i casi nei quali i termini di cui al presente comma possono essere prorogati per cause indipendenti dalla volontà del cacciatore.”.
Tale modifica trasforma la caccia programmata in caccia libera, legittimando il nomadismo venatorio e violando i principi della legge quadro nazionale che impongono la programmazione della densità venatoria e l’ancoraggio del cacciatore al territorio di residenza, fatte salve puntuali eccezioni (ammissioni del cacciatore anche ad un altro ambito di caccia oltre a quello della residenza) soggette a valutazione dipendente essenzialmente dallo stato della fauna selvatica e dalla densità dell’ambito.
In Regione Lombardia (la quale non è munita di un piano faunistico venatorio regionale, a cui spetta la determinazione della densità faunistica ottimale) i relativi ambiti di caccia non hanno dimensioni sub-provinciali così come richiesto dalla legge nazionale e confermato anche dalla Corte Costituzionale. (Sentenza n. 4 del 2000 e sentenza n. 303 del 2013).
Il risultato della modifica normativa introdotta è quello di rendere, quindi, un diritto l’ammissione del cacciatore ad altri ambiti, svincolando l’ammissione dai requisiti di densità e sostenibilità che sono alla base della “caccia programmata” di cui all’art. 14 della legge n. 157 del 1992, al fine di consentire lo spostamento del cacciatore da un capo all’altro del territorio regionale, date le dimensioni spesso provinciali degli ambiti di caccia.
Al riguardo, la stessa Corte Costituzionale ha più volte affermato (cfr. da ultimo sentenza n. 174 del 2017) che, con l’art. 14 della legge n. 157 del 1992, il legislatore statale ha inteso circoscrivere il territorio di caccia, determinando, allo stesso tempo, «uno stretto vincolo tra il cacciatore ed il territorio» nel quale è autorizzato l’esercizio dell’attività venatoria. Tale norma statale mira, inoltre, a valorizzare il ruolo della comunità insediata in quel territorio, chiamata, attraverso gli organi direttivi degli ambiti, «a gestire le risorse faunistiche» (sentenze n. 142 del 2013 e n. 4 del 2000).
La ripartizione in ambiti territoriali di caccia di dimensione ridotta, desumibile dal complessivo quadro normativo, è necessaria, dunque, al fine di permettere un’attività di controllo da parte dell’amministrazione competente che, ai sensi del richiamato art. 14, comma 3, verifica periodicamente l’adeguatezza del rapporto tra i cacciatori autorizzati e la porzione di territorio interessata.
In tale contesto si colloca la suddetta norma statale, evocata a parametro interposto, che contempla una richiesta per accedere agli ambiti territoriali di caccia della Regione nei quali il cacciatore non è autorizzato ad esercitare l’attività venatoria.

4) L’art. 8, comma 1, lett. j) della l.r. 13/2020, nel sostituire il comma 8 dell’art. 28 della l.r. Lombardia 26/93 riguardo la gestione programmata della caccia, consente l’ammissione del cacciatore ad altri ambiti territoriali di caccia, svincolando l’ammissione stessa dalla sussistenza dei requisiti di densità e sostenibilità che sono alla base della “caccia programmata” (Corte Cost. Sentenze n. 16/2019, n. 4/2000, n. 303/2013), così ponendosi in contrasto con l’art. 14 della legge n. 157 del 1992, in quanto non subordina l’ammissione al vaglio decisionale degli organi dell’ambito e al rispetto inderogabile della densità venatoria massima per consentire lo spostamento del cacciatore da un capo all’altro del territorio regionale legittimando il nomadismo venatorio.
La previsione normativa appare incompatibile con quella dell’art. 14, comma 3, della legge n. 157 del 1992, che demanda al Ministero per le politiche agricole, alimentari e forestali di stabilire con periodicità quinquennale, sulla base dei dati censuari, l’indice di densità venatoria minima per ogni ambito territoriale di caccia.
Tale indice – come la norma statale precisa – è costituito dal rapporto tra il numero di cacciatori ed il territorio agro-silvo-pastorale nazionale ed indica il livello minimo di densità dei cacciatori per ettaro.
La previsione del dato a livello nazionale è finalizzata ad uniformare, almeno tendenzialmente, la pressione venatoria sul territorio, riequilibrando la sperequazione: Regioni a bassa pressione venatoria possono, infatti, ospitare i cacciatori in esubero di altre Regioni.
Detta finalità, che presuppone la determinazione unitaria del dato a livello nazionale, osta, dunque, alla possibilità che la Regione determini, a sua volta, indici minimi, salva la facoltà di individuare un indice massimo per contenere il numero dei cacciatori (Corte Cost. Sentenza n. 4/2000 citata).
4: periodo di caccia agli ungulati e al cinghiale.
5) L’art. 8, comma 1, lett. o) stabilisce quanto segue:
“Il comma 11 dell’articolo 40 è sostituito dal seguente:
“11. La caccia di selezione agli ungulati si svolge nei periodi di seguito indicati sulla base di specifici piani di prelievo, strutturati per sesso e classi di età, previa acquisizione del parere dell'ISPRA e, limitatamente ai comprensori alpini e agli ambiti territoriali di caccia, secondo specifiche disposizioni attuative adottate dalla Regione o dalla Provincia di Sondrio per il relativo territorio:
a) camoscio, cervo e muflone: dal 1° agosto al 31 dicembre;
b) capriolo: dal 1° giugno sino alla seconda domenica di dicembre in zona Alpi; dal 1° giugno al 30 settembre e dal 1° gennaio al 15 marzo al di fuori della zona Alpi;
c) cinghiale: tutto l’anno.”
La norma in questione, nell’introdurre periodi di caccia di selezione agli ungulati, risulta in contrasto con l’art. 18 (Specie cacciabili e periodi di attività venatoria) della legge n. 157 del 1992.
Siffatto parametro interposto statale stabilisce al comma 1, lettera c), che capriolo, cervo, muflone e camoscio possono essere cacciati in via generale dall’ 1 ottobre al 30 novembre, salvo modifiche indicate al comma 2, le quali specificano che la caccia di selezione agli ungulati, come le specie in questione, può iniziare dall’ 1 agosto, ma rispettando l’arco temporale del comma 1, ossia 60 giorni.
Il comma 3 stabilisce che l’elenco delle specie cacciabili può essere modificato solo dal Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'Agricoltura, d'intesa con il Ministro dell'Ambiente, sentito ISPRA in conformità alle vigenti direttive comunitarie e alle convenzioni internazionali sottoscritte, tenendo conto della consistenza delle singole specie sul territorio.
A tale norma statale primaria non risulta essersi conformata la nuova legge regionale (punti a) e b) della lettera o) del comma 1 dell’art. 8), che, inoltre, alla lettera c), ha previsto lo svolgimento della caccia in selezione del cinghiale, “per tutto l’anno”, disposizione, quest’ultima, che si pone, anch’essa in chiaro contrasto con l’articolo 18 comma 1, lettera d), e comma 2 della più volte menzionata legge n. 157 del 1992.
Oltre al profilo di incostituzionalità, vi è, altresì, da evidenziare che dette previsioni aumentano considerevolmente i rischi per la sicurezza pubblica, posto che aumentare il periodo di caccia agli ungulati significa aumentare le probabilità di incidenti essendo, secondo la letteratura in argomento, proprio questo tipo di caccia la causa dei maggiori e più gravi incidenti, con morti e feriti, territorio nazionale (Corte Cost. n. 233/2010).
Occorre, altresì, evidenziare che il decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, all’articolo 11-quatedecies, comma 5, ha previsto che “ Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sentito il parere dell'Istituto nazionale per la fauna selvatica (ora ISPRA) o, se istituti, degli istituti regionali, possono, sulla base di adeguati piani di abbattimento selettivi, distinti per sesso e classi di età, regolamentare il prelievo di selezione degli ungulati appartenenti alle specie cacciabili anche al di fuori dei periodi e degli orari di cui alla legge 11 febbraio 1992, n. 157”.
Sul punto, la sussistenza di siffatto regime derogatorio, anch’esso assoggettato a relativa procedimentalizzazione, avrebbe potuto costituire, seppure in parte qua, con specifico riferimento al prelievo venatorio degli ungulati, e nel contemperamento dei correlati interessi conservativi ambientali, criterio di riferimento utile per un’estensione programmatica, in termini temporali da parte della Regione dell’attività di caccia di siffatta specie.
Con riferimento alle disposizioni regionali anzidette, occorre altresì evidenziare un ulteriore profilo di potenziale criticità rinvenibile dall’individuazione con legge regionale, anziché con provvedimento amministrativo, di alcune date del calendario venatorio.
La proposta di modifica, pur non intervenendo direttamente sulla Legge Regionale n. 17/2004 (recante il calendario venatorio regionale), di fatto integra il calendario venatorio, in quanto individua i periodi in cui è consentita la caccia di selezione, ponendosi in conflitto con l’articolo 18, comma 2, della legge n. 157 del 1992, espressivo della competenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., che stabilisce che le Regioni possono modificare il calendario venatorio, con riferimento all’elenco delle specie cacciabili e al periodo in cui è consentita la caccia, indicati dal precedente comma 1, attraverso un procedimento che contempla l’acquisizione del parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica (nelle cui competenze oggi è subentrato l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale - ISPRA).
Lo stesso articolo 18 della legge n. 157 del 1992, al relativo comma 4, nella parte in cui dispone che il calendario venatorio sia approvato con regolamento, “esprime, altresì, una scelta compiuta dal legislatore statale che attiene alle modalità di protezione della fauna e si ricollega, per tale ragione, alla competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” (cfr. Corte Cost., sentenza n. 536 del 2002; in seguito, con riferimento alla determinazione della stagione venatoria, sentenze n. 165 del 2009, n. 313 del 2006, n. 393 del 2005, n. 391 del 2005, n.311 del 2003 e n. 226 del 2003).
In tale prospettiva, l’art. 18 della legge n. 157 del 1992, se da un lato predetermina gli esemplari abbattibili, specie per specie e nei periodi indicati, dall’altro lato permette alla Regione l’introduzione di limitate deroghe ispirate a una simile finalità, chiaramente motivate con riguardo a profili di natura scientifica: ne è conferma la previsione del parere dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), richiesto dall’art. 18, comma 2, e dall’art. 18, comma 4, con specifico riferimento all’approvazione del calendario venatorio.
Occorre richiamare la giurisprudenza costituzionale (cfr. Sentenza n. 90 del 2013) che afferma: «è incostituzionale l’approvazione del calendario venatorio con legge regionale, anziché con atto amministrativo», essendo «evidente che il legislatore statale, prescrivendo la pubblicazione del calendario venatorio e contestualmente del "regolamento" [...] abbia inteso realizzare un procedimento amministrativo, al termine del quale la Regione è tenuta a provvedere nella forma che naturalmente ne consegue, con divieto di impiegare, invece, la legge-provvedimento».
Appare evidente che il legislatore statale, prescrivendo la pubblicazione del calendario venatorio e contestualmente del “regolamento” sull’attività venatoria e imponendo l’acquisizione obbligatoria del parere dell’ISPRA, ed esplicitando la natura tecnica dell’intervento, abbia inteso realizzare un procedimento amministrativo, al termine del quale la Regione è tenuta a provvedere.
L’istituto del procedimento consente di contemperare gli interessi ambientali in gioco, connotandosi, altresì, per un soppesato e coerente apparato motivazionale che, in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione, necessariamente dovrà tradursi in un provvedimento espresso dell’amministrazione di carattere normativo.

6) Per le stesse motivazioni sopraesposte, va censurato il disposto di cui alla lettera n), del comma 1, dell’art. 8 della l.r. 13/2020, recante la disciplina di specie (beccaccia), tempi e modi di caccia in contrasto con i parametri statali interposti dianzi citati.

7) L’articolo 8, comma 1, lett. p) della l.r. 13/2020 recita testualmente:
“Alla fine della lettera c) del comma 2 dell’art. 43 è aggiunto il seguente periodo: “e l’esercizio della caccia di selezione al cinghiale, per il quale è consentito anche l’uso di dispositivi per la visione notturna”.
Attraverso la modifica recata dalla legge regionale in oggetto, il comma 2 dell’articolo 43 (Divieti) della legge regionale n. 26/1993 “Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività venatoria” viene così integrato:
Art. 43 – Divieti
2. E' altresì vietato:
a) abbattere o catturare le femmine accompagnate dai piccoli o comunque lattanti ed i piccoli del camoscio, del capriolo, del cervo, del daino e del muflone di età inferiore ad un anno, fatta eccezione per la caccia di selezione;
b) arrecare disturbo alla selvaggina ovvero causare volontariamente spostamenti della stessa al fine di provocarne la fuoriuscita da ambiti protetti per scopi venatori;
c) detenere e/o usare fonti luminose atte alla ricerca della fauna selvatica durante ore notturne, salvo gli autorizzati dalla Regione o dalla provincia di Sondrio e l’esercizio della caccia di selezione al cinghiale, per il quale è consentito anche l’uso di dispositivi per la visione notturna”.
L’esame, in punto di legittimità costituzionale, della norma regionale che si contesta impone una preliminare ricostruzione delle previsioni legislative statali suscettibili di assumere in materia la valenza di parametri interposti in quanto espressione della competenza esclusiva dello Stato a porre standard uniformi di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema non derogabili in peius dalle regioni.
In questa prospettiva, rileva innanzitutto l’art. 13 della legge n. 157 del 1992 rubricato “Mezzi per l'esercizio dell'attività venatoria” che, nell’elencare in maniera tassativa i mezzi di caccia consentiti, non include fra essi le fonti luminose artificiali, né gli strumenti di amplificazione della luce residua, strumenti, quest’ultimi, che la costante giurisprudenza di Cassazione Penale ha annoverato tra quelli non ammessi nell’attività venatoria (ex multis: Cass. Pen. Sez, III, sentenza n, 48459 del 9/12/2015; Cass. Pen, Sez. III, sentenza n. 34782, del 17 luglio 2017, concernente sorgenti luminose e dispositivo attivo munito di reticolo retroilluminato nell’attività venatoria).
Analogo rilievo assume in tale contesto, con riferimento all’articolo 117, comma 1 Cost., in base al quale la potestà legislativa delle Regioni va esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, il parametro statale interposto di cui al D.P.R. 8 settembre 1997, n. 357, attuativo della Direttiva 92/43/CEE “Habitat”, che all’art. 10, comma 3-lett. a) (da leggersi in combinato disposto con il relativo allegato F), vieta, in ogni caso, l’utilizzo di tutti i mezzi di cattura non selettivi suscettibili di provocare localmente la scomparsa o di perturbare gravemente la tranquillità delle specie, di cui all'allegato E, e, in particolare:
- dispositivi di mira per tiri notturni comprendenti un amplificatore di immagini o un convertitore di immagini elettroniche;
- fonti luminose artificiali;
- mezzi di illuminazione di bersagli.
La legge 5 agosto 1981, n. 503 “Ratifica ed esecuzione della convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell'ambiente naturale in Europa, con allegati, adottata a Berna il 19 settembre 1979”, al relativo allegato IV vieta, durante la caccia ai mammiferi l’utilizzo di:
- fonti luminose artificiali;
- dispositivi di illuminazione bersagli;
- congegni di mira dotati di convertitore di immagine o di dispositivo di ingrandimento per la caccia.
Nell’ambito di tale cornice normativa primaria statale si colloca, dunque, la norma regionale anzidetta, che nella sua attuale formulazione consente per l’esercizio della caccia di selezione al cinghiale l’uso di dispositivi per la visione quali mezzi ausiliari a quelli consentiti dal citato articolo 13 della legge n. 157 del 1992.
Posto che la materia della caccia è condizionata dall’intima compenetrazione con altre materie tra le quali spicca quella della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema che è ricompresa nella potestà esclusiva statale prevista ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s) Cost., che limita ampiamente tanto la potestà “primaria”, quanto, se del caso, quella residuale regionale, la stessa potestà esclusiva statale richiamata ha individuato, anche per il settore che qui rileva, alcuni principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale. Nello specifico occorre far riferimento alla legge n. 157 del 1992, che stabilisce espressamente, come previsto dal dianzi accennato articolo 13, comma 5, che “Sono vietati tutte le armi e tutti i mezzi per l’esercizio venatorio non esplicitamente ammessi dal presente articolo,” tra i quali non sono ricompresi i dispositivi per la visione notturna di cui alla norma regionale che si contesta, il cui utilizzo risulta, altresì, penalmente sanzionato ai sensi del successivo art. 30 primo comma-lett. h), della stessa legge n. 157 del 1992.
Proprio per tale interazione e sulla scorta delle norme statali rassegnate in precedenza che fissano i principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale con riguardo ai rapporti tra normativa statale e regionale sulla caccia, spetta allo Stato, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera s) Cost., stabilire soglie minime e uniformi di protezione della fauna valevoli per l’intero territorio nazionale, le quali vincolano le Regioni, impedendo loro di prevedere forme di tutela più ridotta (ad es. Corte Cost. 536/2002).
Anche la Corte di Cassazione si è pronunciata sul tema precisando che “è esercizio venatorio non solo ogni atto diretto all’abbattimento e alla cattura degli animali selvatici, ma anche l’attività prodromica di appostamento e di ricerca della fauna” (Sez. III, sent. n. 8322 del 23.07.1994) e che “integra il reato di esercizio della caccia con mezzi vietati l’uso di un fucile dotato di puntatore laser, in quanto tale strumento rende l’arma più idonea alla cattura diretta degli animali in tempo notturno, e ne diviene parte integrante, sì da non poter essere considerato estraneo all’impiego della medesima quale mezzo diretto di esercizio venatorio” (Sez. III, sent. n. 28511 del 09.06.2009).
Lo stesso supremo Organo giurisdizionale di legittimità, con la sentenza 3 settembre 2014, n. 36718, ha chiaramente affermato che “siccome nell’esercizio venatorio rientrano non solo gli atti diretti all’abbattimento della selvaggina, ma anche l’attività prodromica di appostamento e ricerca della fauna, devono ritenersi inclusi, nel novero dei mezzi vietati, anche l’uso dei fari alogeni se ed in quanto destinati, come nella specie, ad esercitare una vis attrattiva sulla fauna per cercare, braccare e stanare la preda da abbattere, cosicché’ il mezzo adoperato si connoti per costituire strumento intrinsecamente, funzionalmente ed essenzialmente connesso all’attività di caccia.”

Ciò posto non può non evidenziarsi come la legge regionale de qua preveda azioni potenzialmente lesive di beni ambientali tutelati dalla normativa statale, da ciò discendendone il relativo contrasto con i parametri interposti statali in materia di tutela delle aree protette e di conservazione della biodiversità e la correlata violazione dei precisi obblighi comunitari derivanti dalla Direttiva 92/43/CEE “Habitat” e dalla Direttiva 79/409/CEE “Uccelli” in relazione all’applicazione delle misure di conservazione previste dall’5, comma 1, lett. a) del decreto ministeriale 17 ottobre 2007, nonché le disposizioni della n. 157 del 1992, qualificabile secondo giurisprudenza costituzionale, come norma di fondamentale di riforma economico-sociale (sent. n. 139/2017 e da ultimo sent. n. 217/2018).
Pur essendo, difatti, la caccia materia affidata alla competenza legislativa residuale della Regione ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., è tuttavia necessario che la legislazione regionale rispetti la normativa statale adottata in tema di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ove essa esprime regole minime uniformi (ex plurimis, Corte Cost. Sentenze n. 2 del 2015, n. 278 del 2012, n. 151 del 2011 e n. 315 del 2010) costituenti (come nel caso della legge n. 157 del 1992) il nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica e il cui rispetto deve essere assicurato sull’intero territorio.

Alla luce di quanto rappresentato e del quadro normativo eurounitario e statale in cui si colloca la tutela delle specie, si rileva il contrasto delle anzidette norme della legge della Regione Lombardia n. 11 del 2020, con il secondo comma, lettera s), dell'art. 117, Cost., poiché tendenti a ridurre in peius il livello di tutela della fauna selvatica stabilito dalla legislazione nazionale e dalle citate direttive comunitarie in materia (Direttiva 92/43/CEE c.d. “Direttiva habitat” e Direttiva n. 79/409/CEE c.d. "Direttiva Uccelli"), invadendo illegittimamente la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, – confliggendo, altresì, per quanto dianzi rassegnato, con il principio di “buon andamento dell’amministrazione” sancito dall’art. 97 Cost.
Per i motivi esposti, si ritiene di sollevare la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale dell’art. 8, comma 1, lett. e), f), i), j), n), o) e p) della legge della Regione Lombardia n.13 del 2020 per violazione degli articoli 117 Cost, comma secondo, lettera s) e 97 Cost.

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