Dettaglio Legge Regionale

Norme per il riuso e la riqualificazione edilizia e modifiche alla legge regionale 26 novembre 2007, n. 33 (Recupero dei sottotetti, dei porticati, di locali seminterrati e interventi esistenti e di aree pubbliche non autorizzate). (12-8-2022)
Puglia
Legge n.20 del 12-8-2022
n.90 del 16-8-2022
Politiche infrastrutturali
10-10-2022 / Impugnata
La legge della Regione Puglia n. 20 del 12 agosto 2022 che detta norme rivolte al riuso e alla riqualificazione urbanistica ed edilizia è censurabile relativamente a numerose disposizioni che, intervenendo sulla disciplina edilizia regionale vigente, determinano la violazione di norme statali di riferimento, ponendosi in contrasto con i principi fondamentali posti dallo Stato in materia di governo del territorio, in violazione dell’articolo 117, terzo comma della Costituzione, violando altresì la competenza esclusiva dello Stato in materia di beni culturali e del paesaggio, in contrasto con l’articolo 117 , secondo comma lettera s) della Costituzione.

Si evidenzia altresì il contrasto con l’articolo 9 della Costituzione, in forza del quale la tutela del paesaggio costituisce interesse costituzionale primario ed assoluto (Corte Costituzionale n. 367 del 2007) risultando altresì violato il criterio della ragionevolezza di cui agli articoli 3 e 97 della Costituzione, nonché con il principio costituzionale di leale collaborazione che informa i rapporti tra Stato e regioni nell’ambito dell’esercizio delle relative competenze.

In particolare, risultano censurabili, per le ragioni che di seguito si illustrano, le sotto elencante disposizioni della legge regionale in questione.

• l’ articolo 2, comma 1 “Ambiti d’intervento”, stabilisce che: “1. I Comuni individuano ambiti edificati, esclusivamente all'interno delle zone omogenee B e C come identificate dal proprio strumento urbanistico ai sensi del decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati, e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765) compresi i programmi di fabbricazione, caratterizzati da degrado, sottoutilizzo o abbandono del patrimonio edilizio esistente, dove consentire interventi di riuso e di riqualificazione su immobili con qualsiasi destinazione, attraverso interventi di ampliamento o demolizione e ricostruzione con destinazione finale di tipo residenziale, ovvero destinate ai medesimi usi preesistenti se legittimi o legittimati.”.
La disposizione regionale , laddove consente l’individuazione da parte di Comuni di ambiti edificati, all’interno delle zone ivi indicate come identificate dal proprio strumento urbanistico “compresi i programmi di fabbricazione”, quindi in relazioni anche ad aree prive di pianificazione urbanistica, al fine dell’effettuazione degli interventi previsti, si pone in contrasto con le previsioni di cui all’articolo 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina l’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica, e che recita testualmente: “Art. 9 (L) Attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica (legge n. 10 del 1977, art. 4, ultimo comma; legge n. 457 del 1978, art. 27, ultimo comma). 1. Salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti: a) gli interventi previsti dalle lettere a), b), e c) del primo comma dell'articolo 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse; b) fuori dal perimetro dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell'area di proprietà. 2. Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell'articolo 3 del presente testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo.” Le predette disposizioni statali, che individuano con precisione gli interventi consentiti nelle aree prive di pianificazione, consentendo alle regioni solo di porre limiti più restrittivi, costituiscono principi fondamentali nella materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, che risultano violati dalla disposizione regionale in argomento, non potendosi, all’attualità, equiparare i programmi di fabbricazioni ai Piani Regolatori Generali. Si ricorda, in proposito, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 84 del 2017, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 378, recante «Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)», trasfuso nell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, 42, secondo e terzo comma, 76 e 117, terzo comma, della Costituzione, ha avuto modo di precisare che: “Contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, ….., la norma censurata – nonostante la puntuale quantificazione dei limiti di cubatura e di superficie in essa contenuta – non può qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio fondamentale della materia: il che risponde, del resto, all’indirizzo accolto dalla giurisprudenza amministrativa pressoché unanime, e recepito dallo stesso Tribunale amministrativo regionale per la Campania in precedenti decisioni.
Di là dalle non decisive previsioni generali degli artt. 1, comma 1, e 2, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 – secondo le quali il testo unico reca i principi fondamentali dell’attività edilizia ai quali i legislatori regionali debbono attenersi – milita in tale direzione l’evidenziata funzione della norma di impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di “vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale. Funzione rispetto alla quale la specifica previsione di livelli minimi di tutela si presenta coessenziale, in quanto necessaria per esprimere la regola (al riguardo, sentenza n. 430 del 2007).
Questa Corte, d’altro canto, ha già avuto modo di qualificare come principio fondamentale in materia di «governo del territorio» le misure di salvaguardia previste dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001: e ciò anche – e specificamente – per quanto attiene al puntuale termine di durata cui esse sono sottoposte (sentenza n. 102 del 2013). Dette misure hanno una ratio similare a quella dell’art. 9: mirano, infatti, anch’esse a salvaguardare la funzione di pianificazione urbanistica, evitando che l’introduzione di una nuova disciplina, ritenuta più aderente alle esigenze del territorio e della popolazione, sia pregiudicata dal rilascio di contrastanti titoli edilizi nelle more del procedimento di approvazione del nuovo strumento urbanistico.
Nella successiva sentenza n. 68/2018, il Giudice di legge ha, ulteriormente, precisato:“9.1…considerato l’insegnamento costante di questa Corte secondo cui l’urbanistica e l’edilizia vanno ricondotte alla materia «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., viene in rilievo – come indicato dal ricorrente – l’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001. Quest’ultimo, dopo aver individuato, al comma 1, gli interventi edilizi consentiti «nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici», «[s]alvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali» e comunque nel rispetto delle norme di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, provvede ad identificare, al comma 2, quelli che possono essere realizzati in assenza di piani attuativi, quando questi ultimi siano indicati dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione. Fra questi annovera: gli interventi di manutenzione ordinaria, di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo (art. 9, comma 1, lettera a) e quelli di ristrutturazione edilizia (art. 3, comma 1, lettera d) «che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse» o che «riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo».
“Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sul citato art. 9, anche se con specifico riguardo al comma 1, e ha ritenuto che esso, pur dettando specifici e puntuali limiti alla possibilità di realizzare interventi edilizi in assenza di strumenti urbanistici, «non può qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio fondamentale della materia»….Ciò ha ritenuto in ragione della sua peculiare funzione, che consiste nell’«impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di “vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale»….La medesima funzione – e quindi la medesima natura di norma di principio – deve essere ascritta anche al comma 2 del citato art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, là dove individua e delimita la tipologia di interventi edilizi realizzabili in assenza di piani attuativi, che siano qualificati dagli strumenti urbanistici generali come presupposto necessario per l’edificazione. Anche in tal caso la norma in esame mira a salvaguardare la funzione di pianificazione urbanistica intesa nel suo complesso, evitando che, nelle more del procedimento di approvazione del piano attuativo, siano realizzati interventi incoerenti con gli strumenti urbanistici generali e comunque tali da compromettere l’ordinato uso del territorio.”.
Pertanto, l'articolo 2, comma 1, si pone in contrasto con l’articolo 9, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, principi fondamentali nella materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.

• L’articolo 2, comma 2, prevede che l'individuazione di cui a1 comma 1, deve approvarsi con apposito atto deliberativo del Consiglio comunale. Tale deliberazione — prosegue il comma — “segue il procedimento di cui all’articolo 12, comma 3, lettera e), della legge regionale 27 luglio 2001, n. 20”.
La Regione Puglia, come noto, ha approvato il Piano Paesaggistico con delibera n. 176 del 16 febbraio 2015 (BURP n. 40 del 23 marzo 2015). La legge in esame interviene ora a disciplinare gli interventi di riuso e di riqualificazione, consentendo ai Comuni di individuare gli ambiti edificati ove consentire gli stessi con una deliberazione sottratta a ogni verifica di compatibilità, anche di livello regionale, e — quindi — neppure soggetta alla verifica di conformità rispetto al sovraordinato piano paesaggistico. Al riguardo, si ricorda che la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato la “necessità che la tutela paesaggistica sia caratterizzata dalla «concertazione rigorosamente necessaria» (così sentenza n. 64 del 2015) tra Regione e organi ministeriali, la quale impone la partecipazione di questi ultimi al procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica (sentenza n. 64 del 2015, in senso analogo, sentenze n. 240 del 2020, n. 197 del 2014 e n. 211 del 2013)” (Corte cost., n. 74 del 2021).
In sostanza, la Regione, nel prevedere che la deliberazione del Consiglio comunale di approvazione della individuazione degli ambiti edificati, esclusivamente all'interno delle zone omogenee B e C, dove consentire gli interventi di riuso e di riqualificazione di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, segua il procedimento di cui al citato articolo 12, comma 3, lettera e), della legge regionale 27 luglio 2001, n. 20, sottrae tali interventi alla verifica di compatibilità regionale, metropolitana o provinciale e, dunque, alla verifica di compatibilità degli stessi con il piano paesaggistico, la quale deve svolgersi con la necessaria partecipazione degli organi del Ministero della cultura. Tale omissione si ritiene particolarmente significativa considerando che tra i contenuti propri del piano paesaggistico vi sono, tra l'altro, la “individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze della tutela”, nonché la “individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio, al fine di realizzare uno sviluppo sostenibile delle aree interessate” (articolo 143, comma 1, lett. g) e h), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). Bisogna al riguardo ricordare che: “A far data dall'adozione del piano paesaggistico non sono consentiti, sugli immobili e nelle aree di cui all'articolo 134, interventi in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel piano stesso. A far data dalla approvazione del piano le relative previsioni e prescrizioni sono immediatamente cogenti e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici (art. 143, comma 9, del Codice dei beni culturali e del paesaggio). Inoltre, l'art 145, comma 4, dello stesso Codice stabilisce che “I comuni, le città metropolitane, le province e gli enti gestori delle aree naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale, entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre due anni dalla loro approvazione. I limiti alla proprietà derivanti da tali previsioni non sono oggetto di indennizzo”. Il comma 5 del medesimo articolo 145 stabilisce, altresì, che “La regione disciplina il procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica, assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo”.

Pertanto, l'articolo 2, comma 2, si pone in contrasto con l'art. 9 della Costituzione e con gli articoli 143, comma 9 e 145 del Codice dei beni culturali e de1 paesaggio, da considerare norme interposte rispetto all'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.


• L’articolo 2, comma 3, prevede “La deliberazione di cui al comma 2 può consentire per gli edifici residenziali ubicati nei contesti rurali (zone omogenee E di cui al D.M. 1444/1968) interventi di ampliamento nella misura massima del 20 per cento e di demolizione e ricostruzione nella misura massima del 35 per cento e comunque non oltre 200 metri cubi, se finalizzati al risanamento igienico-sanitario o alla riqualificazione energetica dell’intero edificio con salto di categoria di almeno due classi, ovvero, qualora per gli ampliamenti non risulti possibile, il conseguimento della classe energetica più alta da dimostrare mediante 1’attestato di prestazione energetica di cui all’articolo 6 del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 ... precedente e posteriore all’intervento, rilasciato da tecnico abilitato nelle forme della dichiarazione asseverata, nel rispetto delle norme di tutela paesaggistica di cui al Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR). È assicurato l'incremento della superficie permeabile del lotto e sono migliorate le connessioni ecologiche esistenti.” “La deliberazione di cui al comma 2” è quella mediante la quale i Comuni individuano, all'interno delle zone omogenee B e C, gli ambiti edificati dove consentire interventi di riuso e di riqualificazione. La disposizione in esame prevede, dunque, che tale delibera — come visto sottoposta a un procedimento di approvazione semplificata, per le cui censure si rinvia al paragrafo 1 — possa “consentire, per gli edifici residenziali ubicati nei contesti rurali (zone omogenee E di cui al D.M. 1444/1968), interventi di ampliamento nella misura massima del 20 per cento e di demolizione e ricostruzione nella misura massima del 35 per cento e comunque non oltre 200 metri cubi, se finalizzati al risanamento igienico-sanitario o alla riqualificazione energetica dell’intero edificio”.
Come è noto, l'attività edificatoria in zone agricole è soggetta a stringenti e particolari limitazioni volte a frenare la tendenza all'urbanesimo, secondo quanto prescritto dall'articolo 1 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (c.d. Legge Urbanistica) che all'articolo 4 l -quinquies, commi ottavo e nono, prevede che. “8. In tutti i comuni, ai fìni della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi. 9. I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per 1’interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici. In sede di prima applicazione della presente legge, tale decreto viene emanato entro sei mesi dall'entrata in vigore della medesima”.
In attuazione della predetta disposizione, il decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, ha individuato, all'articolo 2, lettera et, tra le “zone di territorio omogenee”, anche “le parti del territorio destinate ad usi agricoli, escluse quelle in cui - fermo restando il carattere agricolo delle stesse - il frazionamento delle proprietà richieda insediamenti da considerare come zone”.
Il decreto ministeriale n. 1444 del 1968 definisce non solo i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (art. 3 e 5), fissando le quantità minime di queste ultime, ma anche i limiti inderogabili di densità edilizia (art. 7), di altezza degli edifici (art. 8) e di distanza tra i fabbricati (art. 9) che vanno rispettati per le diverse zone territoriali omogenee. In particolare, per quanto attiene alle zone agricole, per tutelare il paesaggio e l'ambiente e per controllare la densità edilizia, è prevista la sostanziale inedificabilità. Anche nei limitati casi in cui è ammessa l'attività edificatoria nelle zone agricole, la stessa è estremamente ridotta ed è stabilito un limite massimo e inderogabile con indice di edificabilità a fini di insediamento residenziale pari a 0,03 metri cubi per metro quadro (cfr. articolo 7, n. 4), del d.m. n. 1444 del 1968).

Quest'ultimo decreto ministeriale, nel prescrivere la suddivisione del territorio comunale in zone territoriali omogenee, persegue lo scopo di garantirne un assetto ordinato. I limiti così imposti hanno efficacia vincolante anche verso il legislatore regionale, come peraltro chiarito dalla Corte costituzionale, la quale ha statuito espressamente che “(...) i limiti fissati dal d.m. n. 1444 del 1968, che trova il proprio fondamento nell'art. 41-quinquies, commi 8 e 9, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), hanno efficacia vincolante anche verso il legislatore regionale (ad esempio, sentenza n. 232 del 2005 j, t...) costituendo essi principi fondamentali della materia, in particolare come limiti massimi di densità edilizia a tutela del «primario interesse generale all’ordinato sviluppo urbano» Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 5 novembre 2018, n. 6250)” (Corte cost., sent. 20 ottobre 2020, n. 217).

Al riguardo, occorre tenere presente che l'articolo 2, comma 3, della legge, nel consentire la realizzazione sugli edifici residenziali rurali degli interventi di cui agli articoli 3 e 4, ammette la realizzazione una tantum di aumenti di volumetria fino a1 trentacinque per cento dell'edificio esistente, con limite di 200 metri cubi. La norma quindi, oltre a consentire volumetrie aggiuntive rispetto a quelle previste dal DM 1444 del 1968, appare anche basata su una ratio confliggente con quella stabilita dalla normativa statale. L'effetto della disposizione è, potenzialmente, quello di consentire la realizzazione di rilevanti volumetrie residenziali in zona agricola, senza proporzione rispetto alle dimensioni del fondo. Tali ulteriori volumetrie determinano, inoltre, un carico urbanistico aggiuntivo non previsto nelle zone agricole, e tale da determinare la conseguente necessità di realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, con conseguente potenziale incremento del1'urbanizzazione delle aree rurali.

Pertanto, l'articolo 2, comma 3 è in contrasto con l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio di cui all’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150.



• L’articolo 2, comma 5, prevede che “Sono computabili solo i volumi legittimamente realizzati. Le volumetrie per le quali sia stata rilasciata la sanatoria edilizia straordinaria di cui alla legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), alla legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e al decreto legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), sono computate ai fini della determinazione della volumetria complessiva esistente; si computano altresì ai fini della volumetria complessiva anche i volumi effettivamente esistenti per cui sia riconosciuto lo stato legittimo ai sensi dell'articolo 9-bis del D.P.R. 380/2001”
Il successivo comma 6 del medesimo articolo 2, inoltre dispone “6. Il calcolo delle volumetrie è effettuato sulla base di quanto risultante dai titoli edilizi, anche rilasciati in sanatoria ordinaria o straordinaria, del fabbricato da ampliare”
Le descritte disposizioni regionali, dunque consentono che anche i volumi oggetto di condono edilizio siano computati nella determinazione del volume urbanistico al quale commisurare l'incremento volumetrico previsto dalla legge regionale, ponendosi così in contrasto con i principi fondamentali desumibili dall’articolo 41-quinquies, commi ottavo e nono, dalla L. 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), negli artt. 2-bis e 14 del T. U. edilizia. La Corte Costituzionale, nella sentenza n.24 del 2022 ha infatti avuto modo di precisare come il titolo in sanatoria, che può rilevare agli effetti della concessione di premialità volumetrica, differisce dal condono edilizio. Infatti: “Mentre il condono ha per effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell'abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia (sentenza n. 50 del 2017, punto 5 del Considerato in diritto), il titolo in sanatoria presuppone la conformità alla disciplina urbanistica e edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'immobile sia al momento della presentazione della domanda (sentenza n. 107 del 2017, punto 7.2. del Considerato in diritto).”
Risulta inoltre particolarmente critico l’ultimo periodo del comma 5 dell’articolo 2 in esame, dove si stabilisce che “ si computano altresì ai fini della volumetria complessiva anche i volumi effettivamente esistenti per cui sia riconosciuto lo stato legittimo ai sensi dell'articolo 9-bis del D.P.R. 380/2001.” Attraverso l’utilizzo dell’avverbio “altresì”, infatti, si individuano i volumi “per cui sia riconosciuto lo stato legittimo ai sensi dell'articolo 9-bis del D.P.R. 380/2001” quale categoria diversa o ulteriore rispetto ai volumi indicati al medesimo comma. Invero, al fine di consentire la realizzazione degli interventi previsti, sia per i volumi legittimamente realizzati che per quelli condonati deve essere imposto il rispetto della disposizione di principio del testo unico per l’edilizia. Ciò dovendosi anche rilevare la necessità di indicare che i titoli abilitativi sono stati presentati o rilasciati ovvero si sono formati prima della data di entrata in vigore della legge in commento.
Per questi motivi le disposizioni contenute nei commi 5 e 6 dell’articolo 2 della legge regionale in esame violano le disposizioni statali di principio della materia “governo del territorio” sopra indicate e quindi si pongono in contrasto con l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione.

• l’articolo 2, comma 8, prevede “Qualora i comuni non provvedano all'assunzione della deliberazione del consiglio comunale di cui al comma 2 entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, l'intervento puó essere proposto dal singolo proprietario con perizia asseverata da un professionista previa deliberazione del consiglio comunale”. In caso di inerzia dei Comuni nell'adozione della delibera volta all'individuazione degli ambiti edificati dove consentire gli interventi di cui agli articoli 3 e 4, si consente che siano i privati proprietari a proporne la realizzazione, in assenza dunque di una valutazione complessiva del contesto territoriale. L’intervento — che comporta anche rilevanti premialità volumetriche e avviene in deroga agli strumenti urbanistici — è rimesso dunque all'iniziativa del privato, al di fuori di un quadro pianificatorio o almeno programmatorio da parte del Comune. La scelta così operata dalla Regione presenta delle criticità rispetto alla disciplina di tutela dei beni paesaggistici contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, risultando invasiva della potestà legislativa esclusiva spettante allo Stato ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lett. s, della Costituzione. Infatti gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia vengono ad essere collocati al di fuori del necessario quadro di riferimento che dovrebbe essere costituito dalle previsioni del piano paesaggistico, ai sensi degli articoli 135, 143 e 145 del Codice di settore. Infatti, Soltanto questo strumento, elaborato d’intesa tra Stato e Regione, stabilisce, per ciascuna area tutelata, le cd. prescrizioni d'uso (e cioè i criteri di gestione de1 vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e individua la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni. Il legislatore nazionale, nell'esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia, ha infatti attribuito al piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale. Gli articoli 143, comma 9, e 145, comma 3, del Codice di settore sanciscono infatti l'inderogabilità delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché l'immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte cost. n. 180 del 2008).
Attraverso la disposizione in esame, che rimette al privato — in caso di inerzia del Comune — la proposizione degli interventi di demo-ricostruzione realizzabili, viene così ad essere compromessa la necessità imprescindibile di una valutazione complessiva della trasformazione del paesaggio, come espressa nell'ambito del Piano paesaggistico, adottato previa intesa con lo Stato.
La Corte Costituzionale ha più volte affermato l'esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (Corte cost. n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica “è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale” (Corte cost., n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009).Anche di recente, la Corte Costituzionale ha ribadito che “la circostanza che la Regione sia intervenuta a dettare una deroga ai limiti per la realizzazione di interventi di ampliamento del patrimonio edilizio esistente, sia pure con riguardo alle pertinenze, in deroga agli strumenti urbanistici, senza seguire l'indicata modalità procedurale collaborativa e senza attendere 1’adozione congiunta del piano paesaggistico regionale, delinea una lesione della sfera di competenza statale in materia di «tutela dell’ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali», che si impone al legislatore regionale, sia nelle Regioni a statuto speciale (sentenza n. 189 del 20161 che a quelle a statuto ordinario come limite all’esercizio di competenze primarie e concorrenti” (Corte cost. n. 86 del 2019). Come pure evidenziato dalla Corte, “Quanto detto non vanifica le competenze delle regioni e degli enti locali, «ma è l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali» (sentenza n. 182 del 2006; la medesima affermazione è presente anche nelle successive sentenze n. 86 del 2019, n. 68 e n. 66 del 2018, n. 64 del 2015 e n. 197 del 2014)” (Corte cost. n. 240 del 2020).

Pertanto, la disposizione in esame viola l’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Inoltre, l'abbassamento del livello della tutela comporta la violazione anche dell'art. 9 della Costituzione, che sancisce la rilevanza della tutela del paesaggio quale interesse primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007), per violazione dei parametri interposti costituiti dagli articoli 135, 143 e 145 del Codice di settore. Inoltre, della circostanza che la Puglia è dotata di un piano paesaggistico fatto previa intesa con lo Stato, la disposizione censurata, che menoma l'effettiva portata del suddetto piano, dà luogo anche alla violazione del principio di leale collaborazione (cfr. Corte cost. n. 240 del 2020).

Va inoltre, evidenziato che gli interventi di demo-ricostruzione della disposizione censurata incidono anche sul paesaggio non vincolato, pur oggetto di co-pianificazione con lo Stato, costituente oggetto di tutela ai sensi della Convenzione europea de1 paesaggio, sottoscritta a Firenze del 20 ottobre 2000 e ratificata dall' Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14. La Convezione prevede infatti, all'articolo 1, lett. a), che il termine «paesaggio» “designa una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Oggetto della protezione assicurata dalla Convenzione sono, quindi, tutti i paesaggi, e non solo i beni soggetti a vincolo paesaggistico. L'adempimento degli impegni assunti mediante la sottoscrizione della Convenzione richiede che tutto il territorio sia oggetto di pianificazione e di specifica considerazione dei relativi valori paesaggistici, anche per le parti che non siano oggetto di tutela quali beni paesaggistici. Nel sistema ordinamentale, ciò si traduce nei precetti contenuti all'articolo 135 del Codice di settore, il cui testo è stato integralmente riscritto dal decreto legislativo n. 63 del 2008, a seguito del recepimento della Convenzione europea del paesaggio.
In particolare, il comma 1 de1 predetto articolo 135 stabilisce che “Lo Stato e le regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono. A tale fine le regioni sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, entrambi di seguito denominati. "piani paesaggistici”. L'elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143”.
Il medesimo articolo 135 disciplina, poi, la funzione e i contenuti del piano paesaggistico. Ne deriva che, anche con riferimento al paesaggio non vincolato, le Regioni sono tenute alla pianificazione paesaggistica, pur non essendo tenute a tale pianificazione necessariamente d'intesa con lo Stato.
Con la legge in esame, invece la Regione Puglia permette la realizzazione di una serie di interventi, aventi un impatto significativo, anche per sommatoria, sui paesaggi, vincolati e non, senza che tali interventi siano correttamente inquadrati nella pianificazione regionale, allo scopo di disciplinarne la compatibilità con i singoli contesti.

Per le ragioni illustrate, emerge quindi, altresì la violazione degli artt. 9 e 117, primo comma, della Costituzione, rispetto ai quali costituiscono norme interposte la legge n. 14 del 2006, di recepimento della Convenzione europea sul paesaggio, nonché gli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, costituenti norme interposte rispetto all'articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.

Infine è necessario sottolineare che tale disposizione, si configura alla stregua di disposizione analoga, nei contenuti (nonché negli effetti) a quelle di cui alla legge n. 14 del 2009, riguardante il c.d. piano casa pugliese, le cui proroghe sono state più volte già censurate.
La Corte costituzionale, come è noto, non ha mancato di ribadire a più riprese come il cd. piano casa si configuri alla stregua di “misura straordinaria di rilancio del mercato edilizio predisposta nel 2008 dal legislatore statale, contenuta nell’art. 11 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133. In particolare l'art. 11, comma 5, lettera b1, prevedeva che detto piano potesse realizzarsi anche attraverso possibili «incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e di miglioramento della qualità urbana, nel rispetto delle aree necessarie per le superfici minime di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444». Nel 2009, per dare attuazione a tale norma fece seguito l'intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata, stipulata in data 1º aprile 2009, che ha consentito ai legislatori regionali (...) aumenti volumetrici (pari al 20 per cento o al 35 per cento in caso di demolizione e ricostruzione a fronte di un generale miglioramento della qualità architettonica e/o energetica del patrimonio edilizio esistente. ” (Corte cost. n. 70 del 20201”.

La predetta finalità viene tuttavia a essere snaturata dalla Regione, la quale, attraverso le continue proroghe apportate con le leggi regionali che si sono susseguite nel tempo, nonché per il tramite di disposizioni quale quella in esame, determina la sostanziale stabilizzazione delle deroghe agli strumenti urbanistici, con il risultato di accrescere enormemente, per sommatoria, il numero degli interventi assentibili in deroga alla pianificazione urbanistica. Al riguardo, occorre osservare che l'articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, all'ottavo e nono comma, stabilisce il principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in forza del quale la disciplina d'uso del territorio stesso deve essere stabilita nell'ambito della pianificazione urbanistica comunale, sulla base della valutazione in concreto dello stato dei luoghi. Il legislatore nazionale non ha previsto la possibilità per le Regioni di introdurre in via legislativa la possibilità di derogare alla pianificazione urbanistica, mediante previsioni generali e astratte e, quindi, non basate sulle caratteristiche specifiche di ciascun ambito territoriale. Tale possibilità è stata in effetti consentita al legislatore regionale soltanto in via eccezionale, in base alla disciplina dei c.d. primo e secondo piano casa (ossia l'intesa sul piano casa del 2009, fondata sulla previsione dell'articolo 11 del decreto-legge n. 112 del 2008, e l'articolo 5, commi 9 e seguenti, del decreto legge n. 70 del 2011).
Al di fuori di tali ipotesi, di carattere transitorio e dettate dal legislatore nazionale, vige il principio fondamentale già richiamato, in base al quale la disciplina d'uso del territorio deve essere stabilita mediante la pianificazione urbanistica comunale.

Sotto altro profilo, si osserva che la stessa normativa sul piano casa escludeva la possibilità di derogare al d.m. n. 1444 del 1968. Posta la predetta cornice di principio, non è consentito alle Regioni introdurre deroghe generalizzate ex lege alla pianificazione urbanistica e agli standard urbanistici di cui al decreto ministeriale n. 1444 del 1968, tanto più laddove tali deroghe generalizzate assumano carattere stabile nel tempo. Una tale opzione normativa viene, infatti, a snaturare del tutto la funzione propria della pianificazione urbanistica e degli standard fissati a livello statale, volti ad assicurare l'ordinato assetto del territorio.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 219 del 2021, ha invero sottolineato come il potere di pianificazione urbanistica “non è funzionale solo all'interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio [...], ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti”.
Il risultato è quello di assicurare a regime la possibilità di realizzare interventi di rilevante impatto sul territorio direttamente ex lege, in deroga agli strumenti di pianificazione urbanistica, e quindi del tutto al di fuori di qualsivoglia valutazione del singolo contesto territoriale.
Va sottolineato, al riguardo, che anche il Giudice amministrativo ha sempre rimarcato il carattere temporaneo del cd. piano casa, il quale, riflettendo l'esigenza di promuovere gli investimenti privati nel settore dell'edilizia, “e una disciplina che possiede natura eccezionale in merito a specifici interventi. In particolare, la normativa de qua è destinata ad operare per un arco temporalmente limitato” (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. Il, 10 giugno 2020, n. 2304).

La stabilizzazione degli interventi di c.d. piano casa e simili determina, nel complesso, anche la lesione della tutela paesaggistica, come ha rimarcato anche di recente la Corte costituzionale (Corte cost. n. 24 del 2022).

In altra occasione, la Corte ha pure sottolineato che “la circostanza che la Regione sia intervenuta a dettare una deroga ai limiti per la realizzazione di interventi di ampliamento del patrimonio edilizio esistente, sia pure con riguardo alle pertinenze, in deroga agli strumenti urbanistici, senza seguire l'indicata modalità procedurale collaborativa e senza attendere l'adozione congiunta del piano paesaggistico regionale, delinea una lesione della s(era di competenza statale in materia di «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali», che si impone al legislatore regionale, sia nelle Regioni a statuto speciale (sentenza n. 189 del 2016} che a quelle a statuto ordinario come limite all’esercizio di competenze primarie e concorrenti” (Corte cost. n. 86 del 2019).

Alla luce di quanto esposto, l'articolo 2, comma 8, della legge regionale della Puglia n. 20 de1 2022 presenta delle criticità rispetto alla disciplina di tutela dei beni culturali e paesaggistici contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, risultando invasiva della potestà legislativa esclusiva spettante allo Stato ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli articoli 135, 143 e 145 de1 d.1gs. n. 42 del 2004. Sono, inoltre, violati i principi fondamentali posti dall'articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, dall'intesa sul piano casa del 2009, fondata sulla previsione dell'articolo 11 del decreto-legge n. 112 del 2008, e dall'articolo 5, commi 9 e seguenti, del decreto legge n. 70 del 2011.
Inoltre, viene rimessa a1 privato la valutazione di profili che propriamente attengono all'esercizio della discrezionalità tecnica del Comune. Inoltre, come già evidenziato, il meccanismo di applicazione, in concreto, della disposizione risulta esso stesso poco chiaro, non essendo dato comprendere quale sia il procedimento di rilascio del titolo edilizio e in quale fase si inserisca la deliberazione del Consiglio comunale. Per l'effetto, viene ad essere compromessa l'esigenza di salvaguardia dei valori paesaggistici, costituenti interesse primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007).
Emerge, quindi, la violazione degli articoli 3, 9 e 97 della Costituzione.

• L’articolo 3, comma 2, lettera a), stabilisce che “2. L'ampliamento di cui al comma 1 è condizionato al soddisfacimento dei seguenti requisiti:
a) è realizzato in contiguità fisica, anche in sopraelevazione, all'edificio e nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime previste dalla strumentazione urbanistica comunale vigente. In mancanza di specifica previsione in detti strumenti, si applicano le altezze massime e distanze minime previste dal D.M. 1444/1968;”.
Anche in questo caso, la non chiara formulazione della disposizione, in particolare a motivo di quanto disposto nell’ultimo periodo della lettera in commento, indurrebbe a ritenere che possano verificarsi ipotesi in cui nella strumentazione urbanistica comunale vigente non vengano rispettate le previsioni di cui al D.M. n. 1444/1968.
Al riguardo, è appena il caso di ricordare che, alla luce dei noti consolidati orientamenti della Corte costituzionale, le deroghe al D.M. n. 1444 del 1968 sono consentite, ai sensi dell’art. 2-bis, comma 1 (finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio, in base al successivo comma 1-bis) del d.P.R. n. 380 del 2001, esclusivamente “nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.”.
Pertanto, eventuali previsioni difformi dalle previsioni del D.M. n. 1444 del 1968, se non ammesse con le modalità ora specificate, non possono trovare applicazione.
Si evidenzia quindi un contrasto della disposizione in argomento con la disciplina di principio contenuta nella richiamata disposizione della normativa statale di riferimento e quindi la violazione dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, con riferimento alla materia Governo del territorio.

• L’articolo 4, comma 5, dispone che: “5. Gli interventi di ricostruzione sono realizzati nel rispetto delle altezze massime previste dagli strumenti urbanistici o delle ulteriori condizioni previste dall'articolo 2-bis, comma 1-ter, e dell'art. 3 del D.P.R. 380/2001. La diversa sistemazione plano-volumetrica all'interno dell'area di pertinenza deve essere orientata a soddisfare i requisiti di cui al comma 3.”.
L’uso della disgiuntiva “o” risulta consentire che il rispetto di quanto previsto dall’articolo 2-bis, comma 1-ter, e dall'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, si ammesso in alternativa e soltanto in via residuale. Da ciò deriva il contrasto della disposizione regionale in argomento con la richiamata norma statale di principio vincolante per la Regione ai sensi dell’articolo 117, terzo comma della Costituzione, avuto riguardo alla materia “governo del territorio”.

• l’articolo 4, comma 7, prevede “Al fine di assicurare un più adeguato livellamento e uniformità delle altezze e nei casi in cui lo strumento urbanistico prescriva un'altezza massima inferiore rispetto a quella ammessa per le aree confinanti viventi diversa destinazione urbanistica, per gli interventi di ricostruzione è consentito utilizzare il maggior valore delle altezze massime tra quelle previste pe le aree contermini a quella di pertinenza dell'edificio da demolire”.
La disposizione ammette un livellamento verso l'alto dei limiti di altezza stabiliti dagli strumenti urbanistici comunali per le diverse zone del territorio, e ciò sulla base di una previsione generale e astratta, che prescinde, per sua natura, dall'esame dei singoli contesti. Al riguardo, occorre ricordare che i limiti di altezza sono stabiliti dagli strumenti urbanistici comunali, con riferimento alle zone territoriali omogenee nelle quali si articola la pianificazione urbanistica, nel rispetto di quanto stabilito dall'articolo 8 del d.m. n. 1444 del 1968. Ciò in conformità al principio fondamentale in materia urbanistica di cui all'articolo 4l -quinquies, commi ottavo e nono, della legge n. 1150 del 1942.
Prevedendo la deroga a tali limiti mediante la legge in argomento, la Regione appare aver violato il principio che rimette alla pianificazione urbanistica, sulla base di una valutazione caso per caso, la determinazione delle altezze massime degli edifici.
Pertanto, la disposizione viola l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione.

• L'articolo 5 disciplina gli interventi demolizione e ricostruzione con delocalizzazione delle volumetrie. In particolare, il comma 3 stabilisce che “(...) l'incremento dell'indice di edificabilità di zona derivante da tale ricostruzione non costituisce variante alle previsioni del piano urbanistico comunale”.
Anche in questo caso, viene dettata una norma generale e astratta che deroga alla pianificazione urbanistica comunale, senza tenere conto della specificità dei singoli contesti. Al riguardo, deve tenersi presente che i limiti di densità edilizia sono stabiliti dagli strumenti urbanistici comunali ai sensi de11'articolo 7 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, in conformità al principio fondamentale posto dall'articolo 4 I -quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942. Ne deriva che, per le ragioni già esposte a1 paragrafo precedente, la previsione è in contrasto con l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione.
Sotto altro profilo, si osserva che, escludendo la necessità di un'apposita variante allo strumento urbanistico al fine di modificare i limiti di densità edilizia, non solo si determina potenzialmente il superamento dei parametri di cui al d.m. n. 1444 del 1968, ma si esclude anche la fase di verifica di conformità a1 piano paesaggistico, che è invece prescritta per gli strumenti urbanistici, e conseguentemente per le loro varianti.
Da ciò la violazione degli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e in particolare dell'articolo 145, comma 4; disposizioni, queste, che costituiscono norme interposte rispetto all'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

• L'articolo 6 individua i limiti all'applicazione della legge di cui all'oggetto.
Il comma 1 lettera a) prevede che: “1. Fermo restando quanto previsto dagli articoli 2, comma 4, e 7, comma 2, sono esclusi dalla applicazione della presente legge gli edifici: a) illegittimamente realizzati, anche parzialmente, a meno di quelli per i quali sia stato rilasciato titolo edilizio in sanatoria, e gli edifici che abbiano già usufruito degli incentivi di cui alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell'attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale);” Come noto, in tema si stato legittimo degli immobili è intervenuto l’articolo 9-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, che così recita:
“Art. 9-bis Documentazione amministrativa e stato legittimo degli immobili
1. Ai fini della presentazione, del rilascio o della formazione dei titoli abilitativi previsti dal presente testo unico, le amministrazioni sono tenute ad acquisire d'ufficio i documenti, le informazioni e i dati, compresi quelli catastali, che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni e non possono richiedere attestazioni, comunque denominate, o perizie sulla veridicità e sull'autenticità di tali documenti, informazioni e dati.
1-bis. Lo stato legittimo dell'immobile o dell'unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l'ultimo intervento edilizio che ha interessato l'intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un'epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d'archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l'ultimo intervento edilizio che ha interessato l'intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia.”.
In attuazione di tale disposizione statale di principio, la norma regionale, al fine di consentire l’applicabilità delle disposizioni regionali in argomento agli immobili oggetto di sanatoria, avrebbe dovuto necessariamente precisare il termine entro il quale deve essere stato rilasciato il titolo in sanatoria, termine che, ovviamente, non può che essere antecedente alla data di entrata in vigore della legge regionale in esame.
Poiché la disposizione regionale in esame risulta mancante di tale indicazione, essa si pone in contrasto con il principio fondamentale recato dal sopra descritto art. 9-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, recante, con ogni evidenza, una puntuale disciplina in tema di stato legittimo degli immobili, violando così l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione con riferimento alla materia “governo del territorio”.

• Il medesimo articolo 6, comma 1, alla lettera g), prevede che sono esclusi dall'applicazione della legge in esame “gli edifici ubicati in area sottoposta a vincolo con eccezione delle lettere c) e d) del comma 1 dell'articolo 136 e dell'articolo 142 del decreto legislativo n. 42 del 2004”.
Con tale disposizione, vengono consentiti gli interventi di ampliamento e di demo- ricostruzione con aumento di volumetria, questi ultimi qualificati, per espressa previsione dell'articolo 4, comma 1, “ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001”.
Il combinato disposto delle due previsioni comporta che in presenza di immobili vincolati ai sensi dell'articolo 136 e dell'articolo 142 de1 decreto legislativo n. 42 del 2004 sono consentiti gli interventi che il legislatore nazionale, in base alle recenti modifiche dell'articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come ristrutturazione edilizia. Più in dettaglio, l'articolo 3, comma 1, lett. d, del d.P.R. n. 380 del 2001 reca, come è noto, la definizione degli “interventi di ristrutturazione edilizia”, ricomprendendovi anche — a seguito delle recenti modifiche — gli interventi di demo-ricostruzione con modifica dei parametri edilizi e con aumento di volumetria.
In sostanza, alla stregua dell'articolo 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380 del 2001, sono qualificabili — ai soli fini edilizi — come “ristrutturazione edilizia” gli interventi di demo- ricostruzione senza rispetto dei parametri edilizi preesistenti, aventi ad oggetto edifici sottoposti a vincoli diversi da quelli di cui all'articolo 136, comma 1, lett. a) e b), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ossia gli interventi relativi a immobili ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi dell'articolo 136, comma 1, lett. c) e d), oppure sottoposte a vincolo ai sensi dell'articolo 142 del Codice. Al riguardo, occorre sottolineare che le definizioni di cui all'articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R.n. 380 del 2001 attengono al regime edilizio degli interventi; ciò vuol dire che valgono unicamente a individuare il titolo abilitativo necessario per procedere alla realizzazione degli stessi.
Detto in altri termini, laddove il PPTR della Regione Puglia, approvato nel 2015, preveda il divieto di “nuove costruzioni”, consentendo le sole “ristrutturazioni edilizie”, è pacifico che lo stesso debba interpretarsi alla luce della disciplina edilizia all'epoca vigente, pena la violazione del Piano stesso. E, in proposito, occorre tenere presente che nel 2015 gli interventi di demolizione e ricostruzione con modifica dei parametri edilizi ed eventuali incrementi di volumetria erano qualificati come interventi di “nuova costruzione”. Ne deriva che il PTPR, nel vietare “nuove costruzioni”, ha inteso vietare tutti gli interventi annoverabili ne1 2015 nella nozione di “nuova costruzione” e, quindi, anche le demo-ricostruzioni con modifica dei parametri edilizi ed eventuale incremento di volumetria su immobili ricadenti in ambiti vincolati.
L'articolo 6, comma 1, lettera g), della legge regionale in esame mira, dunque, a derogare al piano paesaggistico, consentendo la realizzazione di interventi che il PTPR ha inteso espressamente vietare. Con tale disposizione viene arrecato un vulnus alla funzione stessa della pianificazione urbanistica, alla quale spetta di dettare regole basate sulla situazione specifica dei luoghi; si determina la potenziale compromissione delle esigenze di tutela paesaggistica, in quanto la Regione stabilisce unilateralmente, in deroga al PTPR elaborato d'intesa con lo Stato, la sostanziale “liberalizzazione” degli interventi di demo-ricostruzione, anche negli ambiti vincolati paesaggisticamente ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Al riguardo, occorre ricordare che la Corte costituzionale ha già avuto modo di dichiarare l'illegittimità costituzionale di un'altra recente norma della Regione Puglia, parimenti volta a introdurre una deroga alla pianificazione paesaggistica (Corte cost. n. 192 del 2022). In quella occasione, la Corte ha affermato che, mediante il principio di prevalenza del piano paesaggistico di cui all'articolo 145, “il codice dei beni culturali ha inteso garantire l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica, valore imprescindibile e pertanto non derogabile dal legislatore regionale, in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme di tutela, conservazione e trasformazione del territorio (fra le tante, sentenze n. 45 del 2022, n. 74 del 2021 e n. 240 del 2020). In forza di tale principio, al legislatore regionale è impedito di adottare, sia normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, cioè con previsioni di tutela in senso stretto (fra le molte, sentenze n. 261, n. 141 e n. 74 del 2021, e n. 86 del 2019), sia normative che, pur non contrastando con (o derogando a) previsioni di tutela in senso stretto, pongano alla disciplina paesaggistica limiti o condizioni (sentenza n. 74 del 2021), che, per mere esigenze urbanistiche, escludano o ostacolino il pieno esplicarsi della tutela paesaggistica. In altri termini, «i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio» sono definiti «secondo un modello di prevalenza delle prime, non alterabile ad opera della legislazione regionale» (sentenza n. 11 del 2016,- in senso analogo, sentenze n. 45 e n. 24 del 2022, n. 124 e n. 74 del 2021).”. La Corte ha, inoltre, evidenziato che “... «la normativa sul Piano casa, pur nella riconosciuta finalità di agevolazione dell’attività edilizia, non può far venir meno la natura cogente e inderogabile delle previsioni del codice dei beni culturali e del paesaggio, adottate dal legislatore statale nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”» (sentenza n. 261 del 2021, in senso analogo, sentenza n. 86 del 2019). Anche per tale ragione il PPTR deve essere messo al riparo dalla pluralità e dalla parcellizzazione degli interventi delle amministrazioni locali, che possono mettere in discussione la complessiva ed unitaria efficacia del Piano paesaggistico (fra le varie, sentenze n. 261 e n. 74 del 2021, e n. 11 del 2016)” (Così ancora Corte cost. n. 192 de1 2022).
Alla luce di quanto precede, l'articolo 6, comma 1, lett. g), della legge regionale in questione:
- viola l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, in considerazione della violazione del principio fondamentale, posto dalla legge n. 1150 del 1942, in base al quale tutto il territorio comunale deve essere pianificato, dettando — sulla base del quadro conoscitivo dello stato dei luoghi — la disciplina delle varie porzioni del territorio stesso, individuando anche “i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico” (cfr. articolo 7 della legge urbanistica);
- viola il principio di prevalenza del piano paesaggistico, nonché del principio di copianificazione obbligatoria e, dunque, dell'articolo dell'art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché degli articoli 3 e 9 della Costituzione;
- contrasta con il principio di leale collaborazione, stante la scelta della Regione di assumere un'iniziativa unilaterale, al di fuori del percorso di collaborazione già proficuamente concluso con lo Stato mediante l'approvazione del Piano paesaggistico del 2015.

• L’articolo 9 contiene la norma transitoria che prevede “Le pratiche edilizie inoltrate e protocollate ai sensi della legge regionale 14/2009 presso gli sportelli unici per l'edilizia dei comuni pugliesi, prima della data del 29 luglio 2022, sono istruite e concluse secondo le prescrizioni della medesima legge regionale”.
La norma deroga all’ordinario principio tempus regit actum actum (ex multis: TAR Sardegna Cagliari Sez. I, 13/01/2022, n.12) e a quello della c.d. doppia conformità, che trova applicazione in ambito edilizio, secondo il quale per la sanabilità di interventi edilizi è necessario che sia rispettata sia la normativa vigente alla data di presentazione della pratica edilizia in sanatoria, sia la normativa vigente nel momento in cui è avvenuto l’abuso edilizio (sentenza Corte Costituzionale n. 24/2022). Infatti, il momento in cui l'amministrazione esercita il potere provvedimentale, appare determinante, per stabilire il quadro normativo di riferimento nell‘ambito dei procedimenti edilizi.
La disposizione regionale in esame è pertanto censurabile per violazione dell’istituto dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 36 del DPR 380/2001, che, come affermato dalla Corte costituzionale con costante giurisprudenza, costituisce “principio fondamentale nella materia governo del territorio” (sentenza n. 107/2017) ed è “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità” (sentenza n. 101/2013). Da qui la violazione dell’articolo 117, terzo comma della Costituzione, con riferimento alla materia “governo del territorio”.

• Gli articoli 11 e 14, contenuti nel Capo II della legge regionale in esame, sono censurabili sulla base delle seguenti considerazioni.
Detto Capo II apporta modifiche e integrazioni alla legge regionale 15 novembre 2007, n. 33, concernente “Recupero dei sottotetti, dei porticati, di locali seminterrati e interventi esistenti e di aree pubbliche non autorizzate”.
Al riguardo, giova premettere che la Regione, con l’articolo 3 della legge n. 38 del 2021, era già intervenuta a modificare la legge n. 33 del 2007, in particolar modo sostituendo la data “30 giugno 2020” con “30 giugno 2021” negli articoli 1, comma 3, lettera a) e 4, comma 1. Per effetto di tali modifiche, la normativa regionale era stata, dunque, estesa agli edifici realizzati fino al 30 giugno 2021, con proroga in sostanza di un ulteriore anno della portata applicativa della disciplina (la quinta disposta nel corso degli anni dalla Regione).
Ritenendo tale proroga illegittima, il Governo ha impugnato l’articolo 3 della legge n. 38 del 2021, su cui pende, dunque, ricorso dinanzi alla Corte Costituzionale (n. 11 del 2022, G.U. del 9 marzo 2022, n. 10); nel dettaglio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto di dichiarare l’illegittimità costituzionale, fra l’altro, dell’articolo 3, per violazione degli articoli 3, 9, 97 e 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione, rispetto ai quali costituiscono norme interposte la legge n. 14, del 2006, di recepimento della Convenzione europea sul paesaggio, e gli articoli 4, 20, 21, 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, per contrasto con i principi fondamentali statali in materia di Governo del territorio stabiliti dall’articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 e dall’art. 14 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001.
Con la legge regionale in oggetto la Regione ha apportato modificazioni e integrazioni alla legge regionale n. 33 del 2007, intervenendo anche sulle norme già oggetto di modifica da parte dell’articolo 3, della legge regionale n. 38 del 2021, rispetto al quale pende l’impugnativa dinanzi alla Corte.
In particolare, negli articoli 1, comma 3, lettera a) e 4, comma 1, le parole “alla data del 30 giugno 2021” – come visto inserite dall’articolo 3 della legge n. 38 del 2021 in sostituzione delle previgenti “30 giugno 2021” – sono state sostituite dalle seguenti: “alla data di entrata in vigore della presente disposizione” (modifiche rispettivamente apportate dagli articoli 11 e 14 della legge regionale in esame). Per effetto di tali modifiche, dunque, gli articoli in esame risultano attualmente formulati nei termini riportati di seguito.
Articolo 1, comma 3, lettera a) della legge regionale n. 33 del 2007:
“...Il recupero volumetrico può essere consentito purché gli edifici interessati: a) siano stati legittimamente realizzati alla data di entrata in vigore della presente disposizione...”
Articolo 4, comma 1 della legge regionale n. 33 del 2007:
Il recupero abitativo dei sottotetti esistenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione è ammesso qualora sussistano contestualmente le seguenti condizioni...
L’interpretazione degli articoli 1, comma 3, lettera a) e 4, comma 1 della legge n. 33 del 2007, come modificati, rispettivamente, dagli articoli 11 e 14 della legge in oggetto, appare dubbia.
Non è chiaro, invero, se il riferimento alla “data di entrata in vigore della presente disposizione” riguardi la legge n. 33 del 2007 o, piuttosto, la legge n. 20 del 2022 e, dunque, se in virtù delle anzidette modifiche i recuperi volumetrici previsti dalla legge n. 33 del 2007 si applichino unicamente agli edifici legittimamente realizzati alla data di entrata in vigore della legge n. 33 del 2007 o a tutti quelli legittimamente realizzati fino alla data di entrata in vigore della legge n. 20 del 2022.
Cionondimeno, le norme in esame – quale che sia l’interpretazione, fra le due, assunta – risultano illegittime, per le ragioni che si espongono di seguito.
Ove dovesse intendersi che il riferimento alla “data di entrata in vigore” riguardi la legge n. 33 del 2007 e che, dunque, i recuperi volumetrici si applichino unicamente agli edifici legittimamente realizzati alla data di entrata in vigore di tale legge, gli articoli 1, comma 3, lettera a) e 4, comma 1 della legge n. 33 del 2007, come modificati, rispettivamente, dagli articoli 11 e 14 della legge in oggetto, risulterebbero manifestamente irragionevoli, atteso che si avrebbe una cancellazione retroattiva della disciplina in esame, con pregiudizio per gli interessi dei privati e, in particolare, di tutti coloro che si siano avvalsi della facoltà di recupero dei sottotetti realizzati dopo l’entrata in vigore della legge n. 33 del 2007.
Per questa via, le norme censurate appaiono anche contrarie alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione, proprio in quanto rendono illegittimi, retroattivamente, i procedimenti, anche già conclusi, relativi ai medesimi interventi di recupero di sottotetti, determinando anche l’incertezza delle sorti delle opere già realizzate.
Da qui, pertanto, la violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione.
Deve, tuttavia, rilevarsi che l’interpretazione più plausibile delle due previsioni richiamate è quella secondo la quale la formulazione alla “data di entrata in vigore della presente disposizione” si riferisca non già alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 33 del 2007, bensì alla data di entrata in vigore delle disposizioni di cui all’articolo 1, comma 3, lett. a), e all’articolo 4, comma 1, della legge regionale n. 33 del 2007 come novellate dalla legge regionale n. 20 del 2022 e, quindi, alla data di entrata in vigore di quest’ultima legge.
Così interpretate, le due disposizioni configurano una ulteriore proroga della portata applicativa della disciplina concernente il recupero dei sottotetti (dopo quella già disposta fino al 30 giugno 2021 con l’articolo 3 della legge n. 38 del 2021, rispetto al quale, come detto, pende già impugnativa dinanzi alla Corte), illegittima sotto molteplici profili.
Anzitutto, le novelle in esame, ampliando la portata applicativa della norma mediante la modifica del termine finale di applicazione (riferito all’anno di realizzazione degli edifici interessati), risultano idonee a compromettere le competenze statali in materia di paesaggio e di governo del territorio, in conformità ai principi enunciati dalla Corte, la quale ha già annullato norme regionali di spostamento in avanti di termini già fissati, allo scopo di prolungare l’efficacia della normativa regionale (cfr. sentenza n. 233 del 2020, riferita alla proroga delle concessioni termominerali disposta da una norma della Regione Basilicata).
In tale occasione, peraltro, la Corte ha messo in luce come le norme regionali che dispongono proroghe, successive nel tempo, al termine di efficacia inizialmente previsto hanno l’effetto di consolidare nel tempo l’assetto “in deroga”. (“I principi garantiti dalla normativa interna e sovranazionale possono risultare compromessi da una pluralità di proroghe che, anche se di breve durata, realizzino sommandosi tra di loro un’alterazione del mercato, ostacolando, senza soluzione di continuità, l’accesso al settore di nuovi operatori”). Ciò è esattamente il risultato che la Regione Puglia consegue per effetto delle novelle de qua, con le quali si estende ulteriormente la portata della disciplina derogatoria agli edifici di sempre più recente costruzione, con ciò consolidando “a regime” una disciplina nata come eccezionale e perciò necessariamente temporanea, compromettendo le prerogative statali in materia di tutela del paesaggio e il principio di ordinato assetto del territorio.
In particolare, gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia sono collocati al di fuori del necessario quadro di riferimento che dovrebbe essere costituito dalle previsioni del piano paesaggistico, ai sensi degli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Soltanto a quest’ultimo strumento, elaborato d’intesa tra Stato e Regione, spetta infatti di stabilire, per ciascuna area tutelata, le c.d. prescrizioni d’uso (e cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e di individuare la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni.
La legge regionale in oggetto, dunque, contrasta con la scelta del legislatore statale di rimettere alla pianificazione la disciplina d’uso dei beni paesaggistici (c.d. vestizione dei vincoli) ai fini dell’autorizzazione degli interventi, come esplicitata negli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturale e del paesaggio, costituenti norme interposte rispetto al parametro costituzionale di cui agli articoli 9 e 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione. I cennati profili di illegittimità non sono superati dai riferimenti al rispetto del Codice di settore, nonché della pianificazione paesaggistica pure inseriti con la legge in esame.
L’articolo 10 della legge di cui all’oggetto ha previsto, invero, che dopo il comma 1 dell’articolo 1 della legge regionale 15 novembre 2007, n. 33 è inserito il seguente: “1-bis. Le previsioni della presente legge sono realizzate nel rispetto delle disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e del Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR) elaborato attraverso co-pianificazione Stato-Regione e approvato con Delib. G.R. 16 febbraio 2015, n. 176, ovvero della disciplina d’uso dei beni paesaggistici di cui al medesimo codice.”.
Ancora, l’articolo 13 ha sostituito l’articolo 3 della legge regionale n. 33 del 2007. Per effetto di tale sostituzione, il comma 1, dell’articolo 3 prevede attualmente che “Gli interventi disciplinati dalla presente legge rispettano le previsioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) e non possono derogare il Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), elaborato attraverso co-pianificazione Stato-Regione e approvato con Delib.G.R. 16 febbraio 2015, n. 176 e rispettano le prescrizioni, indirizzi, misure di salvaguardia e direttive contenute nelle relative norme tecniche di attuazione. Il rilascio dei titoli edilizi abilitanti è preceduto, se previsto, da nulla osta comunque denominato delle amministrazioni competenti alla tutela paesaggistica”.
Nonostante la dichiarazione d’intenti della Regione, il risultato è quello di assicurare a regime la possibilità di realizzare interventi di rilevante impatto sul territorio direttamente ex lege, in deroga agli strumenti di pianificazione urbanistica, e quindi del tutto al di fuori di qualsivoglia valutazione del singolo contesto territoriale.
Come è noto, infatti, il piano paesaggistico contiene sia prescrizioni, immediatamente conformative dell’uso dei suoli, sia direttive e indirizzi, che devono essere recepiti negli strumenti di pianificazione urbanistica e da questi ultimi declinati in previsioni puntuali e concrete, mediante i procedimenti di conformazione e adeguamento dei medesimi strumenti urbanistici al PPTR fatto d’intesa con lo Stato (ai sensi degli articoli 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio).
La formula di salvezza del codice dei beni culturali e del paesaggio introdotta dalla Regione potrebbe consentire di far salve, al più, le prescrizioni immediatamente vincolanti del piano paesaggistico. Viceversa, gli indirizzi e le direttive contenuti nello stesso piano sono destinati a rimanere inattuati, proprio perché, prevedendo la deroga sistematica alla pianificazione urbanistica, viene impedita l’operatività di quelle prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici che sono dettate in attuazione di tali indirizzi e direttive del PPTR (ad esempio, norme sulla conformazione dei tetti, sugli abbaini, sulle altezze, sui materiali da impiegare nelle costruzioni, ecc.).
La scelta così operata dalla Regione presenta criticità rispetto alla disciplina di tutela dei beni paesaggistici contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, risultando invasiva della potestà legislativa esclusiva spettante allo Stato ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.
E ciò in quanto gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia vengono ad essere collocati al di fuori del necessario quadro di riferimento che dovrebbe essere costituito dalle previsioni del piano paesaggistico, ai sensi degli articoli 135, 143 e 145 del Codice di settore. Soltanto a quest’ultimo strumento, elaborato d’intesa tra Stato e Regione, spetta infatti di stabilire, per ciascuna area tutelata, le cd. prescrizioni d’uso (e cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e di individuare la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni
La Corte Costituzionale ha infatti più volte ribadito che il “principio di prevalenza della tutela paesaggistica deve essere declinato nel senso che al legislatore regionale è impedito [...] adottare normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, ossia con previsioni di tutela in senso stretto” (sentenza n. 141 del 2021, che richiama le sentenze nn. 29, 54, 74 e 101 del 2021; cfr. anche sentenza n. 251 del 2021).
La stessa Corte ha inoltre rimarcato come essa stessa sia concretamente “chiamata a verificare se la disposizione impugnata si ponga in contrasto con il principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica, o rechi a esso una deroga” (cfr. sentenza n. 141 del 2021).
Al riguardo, deve sottolinearsi che nei casi in cui le leggi regionali rechino una disciplina d’uso del territorio, svolgono una funzione pianificatoria che inevitabilmente fuoriesce dai confini della materia “governo dal territorio” e, anche laddove riguardi il paesaggio non vincolato, viene a impingere nella materia della tutela del paesaggio, riservata allo Stato, la quale pone in capo alle Regioni un vero e proprio obbligo (e non la mera facoltà) di pianificare l’intero territorio regionale mediante i piani paesaggistici (art. 135 del Codice).
Le Regioni pertanto che, in assenza di una specifica disposizione statale (come avviene per esempio nell’ipotesi del c.d. piano casa, peraltro di carattere eccezionale e transitorio), disciplinano il territorio regionale mediante legge eludono l’obbligo di pianificazione del territorio mediante l’unico strumento deputato a contenere la normativa d’uso del territorio, ossia il piano paesaggistico.
Con riferimento ai beni paesaggistici, peraltro, il legislatore statale inibisce alle Regioni di dettare in via autonoma una disciplina d’uso, che è riservata alla co-pianificazione obbligatoria. In tale ipotesi la Regione, disciplinando unilateralmente il paesaggio vincolato, nonostante l’avvenuta approvazione del piano paesaggistico, viene meno all’obbligo di co-pianificazione, con ciò derogando e ponendosi in contrasto con il principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica.
Mediante le disposizioni in esame, la Regione Puglia si sottrae dunque ingiustificatamente al proprio obbligo di co-pianificazione del paesaggio con lo Stato, esercitando una funzione di disciplina del paesaggio e dei beni paesaggistici in modo del tutto autonomo, nonostante la co-pianificazione costituisca un principio inderogabile posto dal Codice (Corte cost. n. 251 del 2021).
Alla luce di tutto quanto sopra illustrato, emerge la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Inoltre, l’abbassamento del livello della tutela determinato dalla legge regionale in oggetto comporta la violazione anche dell’art. 9 della Costituzione, che sancisce la rilevanza della tutela del paesaggio quale interesse primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007), per violazione dei parametri interposti costituiti dagli articoli 135, 143 e 145 del Codice di settore.
Sotto altro profilo, la normativa regionale pretende di estendere una normativa speciale incentivante, applicabile per sua natura agli edifici più vetusti, in quanto attuativa dei principi di contenimento del consumo di suolo e di efficientamento energetico, agli edifici di più recente realizzazione, con ciò contravvenendo al principio fondamentale in materia di governo del territorio – sotteso all’intero impianto della legge urbanistica n. 1150 del 1942, in particolare a seguito delle modifiche apportatevi dalla legge n. 765 del 1967 – secondo il quale gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica sono consentiti soltanto nel quadro della pianificazione urbanistica, che esercita una funzione di disciplina degli usi del territorio necessaria e insostituibile, in quanto idonea a fare sintesi dei molteplici interessi, anche di rilievo costituzionale, che afferiscono a ciascun ambito territoriale. E ciò, in assenza di una specifica disposizione statale che consenta alle Regioni, così come previsto, per esempio, in materia di c.d. piano casa, di assentire, predeterminandone casi e limiti, interventi in deroga agli strumenti urbanistici.
In particolare, costituiscono principi fondamentali in materia di governo del territorio, che si impongono alla potestà legislativa concorrente spettante in materia alle Regioni a statuto ordinario, quelli posti dall’articolo articolo 41-quinquies della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150; articolo aggiunto dall’articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, tra i quali il necessario rispetto degli standard urbanistici. Non è pertanto consentito alle Regioni introdurre deroghe generalizzate ex lege alla pianificazione urbanistica e agli standard urbanistici di cui al decreto ministeriale n. 1444 del 1968, tanto più laddove tali deroghe generalizzate assumano carattere stabile nel tempo. Una tale opzione normativa viene, infatti, a snaturare del tutto la funzione propria della pianificazione urbanistica e degli standard fissati a livello statale, volti ad assicurare l’ordinato assetto del territorio.
Il “recupero” a fini abitativi generalizzato, senza alcun limite oggettivo ed esteso ad edifici realizzati nel 2022, previsto dalla norma regionale, è per forza di cose destinato a stravolgere gli standard legati al carico insediativo e alla densità abitativa, relativi ai fabbisogni delle dotazioni
territoriali di un determinato insediamento e del tutto autonomi rispetto al mero standard delle distanze/altezze.
Appare evidente infatti che la sommatoria di “recuperi” a fini abitativi, anche in caso di non incremento di volume fisico (ma solo di volumetria urbanistica) o di superficie utile, è destinata a incidere sul livello sostenibile di popolazione insediabile compatibile con un certo tessuto abitativo e perciò, inevitabilmente, sugli standard urbanistici, intesi quali rapporti fra insediamenti e spazi pubblici o per attività di interesse generale, e sugli standard edilizi, quali limiti inderogabili di densità edilizia (fatta eccezione per le altezze/distanze, ove mantenute ferme), comportandone di fatto la deroga.
Persino la disciplina del primo o del secondo piano casa – per sua natura di stretta interpretazione – non consente alle Regioni di derogare ai c.d. standard urbanistici previsti dalla normativa statale, ma solamente, e solo temporaneamente, agli strumenti urbanistici. La Corte costituzionale ha infatti rimarcato la necessità, per il legislatore regionale, di rispettare sempre e comunque i limiti fissati dal d.m. n. 1444 del 1968, che trova il proprio fondamento nell’art. 41-quinquies, commi ottavo e nono, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (cfr. sentenza n. 217 del 2020). Tanto più deve negarsi la possibilità per le regioni di derogare ai predetti principi in assenza di una norma di livello statale (quale quella a suo tempo introdotta in materia di c.d. primo e secondo piano casa), che legittimi l’intervento regionale.
È quindi costituzionalmente illegittima una normativa regionale volta a introdurre deroghe generalizzate ex lege alla pianificazione urbanistica e agli standard urbanistici di cui al decreto ministeriale n. 1444 del 1968, tanto più laddove tali deroghe generalizzate assumano carattere stabile nel tempo. Una tale opzione normativa viene, infatti, a snaturare del tutto la funzione propria della pianificazione urbanistica e degli standard fissati a livello statale, volti ad assicurare l’ordinato assetto del territorio.
Inoltre, poiché la normativa ha ad oggetto anche edifici oggetto di sanatoria, si pone in contrasto col principio che vieta premialità edilizie in caso di immobili abusivi oggetto di sanatoria, esplicitato nell’Intesa del 2009 sul c.d. primo piano casa.
È pertanto violato anche l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, per contrasto con i principi fondamentali statali in materia di governo del territorio stabiliti dall’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, come attuato mediante il decreto ministeriale n. 1444 del 1968, nonché per violazione dell’intesa sul piano casa del 2009, fondata sulla previsione dell’articolo 11 del decreto-legge n. 112 del 2008, e dell’articolo 5, commi 9 e seguenti, del decreto legge n. 70 del 2011.
Un ulteriore profilo di illegittimità, infine, riguarda l’irragionevolezza intrinseca della previsione della possibilità di recupero “a regime” dei volumi edilizi relativi a sottotetti anche di recente realizzazione. Come sopra rilevato, la disposizione normativa consente di “recuperare”, in deroga alla pianificazione urbanistica, anche i sottotetti realizzati da pochi anni o, addirittura, da pochi mesi. In questi casi, è evidente che nessuna esigenza di efficientamento energetico e di razionalizzazione del patrimonio edilizio può giustificare il sacrificio indiscriminato delle previsioni pianificatorie, degli standard e delle esigenze di tutela paesaggistica, queste ultime costituenti valore primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007).
Ne deriva la manifesta irragionevolezza delle disposizioni anche per violazione del principio di proporzionalità e quindi la violazione degli articoli 3 e 9 della Costituzione
Alla luce di tutto quanto sopra le disposizioni regionali di cui agli articoli 11 e 14 sono censurabili in quanto violano gli articoli 3 e 97 della Costituzione; contrastano con l’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio; inoltre, l’abbassamento del livello della tutela determinato dalla legge regionale in oggetto comporta la violazione anche dell’art. 9 della Costituzione, che sancisce la rilevanza della tutela del paesaggio quale interesse primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007), per violazione dei parametri interposti costituiti dagli articoli 135, 143 e 145 del Codice di settore;
violano l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, per contrasto con i principi fondamentali statali in materia di governo del territorio stabiliti dall’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, come attuato mediante il decreto ministeriale n. 1444 del 1968, nonché per violazione dell’intesa sul piano casa del 2009, fondata sulla previsione dell’articolo 11 del decreto-legge n. 112 del 2008, e dell’articolo 5, commi 9 e seguenti, del decreto legge n. 70 del 2011; contrastano infine con gli articoli 3 e 9 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza.

Per le motivazioni sopra descritte la legge regionale, limitatamente alle disposizioni sopra indicate, deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.

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